“Considerato altresì che la prevenuta persona pericolosa per la sicurezza pubblica si trova fuori dal comune di residenza e a Venezia non svolge alcuna attività lavorativa, nè ha beni o leciti interessi o altro valido motivo che giustifichi la sua presenza”
E’ questa la formula rituale con la quale le Questure, in assenza di condanne definitive e persino di una chiusura delle indagini, allontanano dal territorio di propria competenza le persone sgradite.
Nel linguaggio poliziesco si chiama “foglio di via”.
Sono sette i fogli di via emessi dal Questore di Venezia nei mesi scorsi, ai danni di compagni e compagne che hanno manifestato in vari modi la propria solidarietà ai detenuti di Santa Maria Maggiore, impegnati in una lotta contro le pessime condizioni detentive e gli abusi dell’amministrazione penitenziaria.
Momenti di lotta importantissimi, durante i quali si sono intessuti legami e complicità inaspettate, durante i quali l’isolamento e la solitudine, fondamenta del sistema carcere, sono sembrati vecchi ricordi di cui ridere.
Momenti che hanno inceppato, anche se sempre per troppo poco, il dispositivo carcere, mostrandolo per la sadica fabbrica di torture e rassegnazione che è sempre stato.
Ovunque il Capitale disegna le proprie geografie, visibili e invisibili. Videosorveglianza, retate, gentrificazione, galere e Cie tracciano le rotte dei flussi mercantili, costantemente presidiati dalla polizia affinchè nulla turbi il loro scorrere. Dove la vita si manifesta nella sua più intima ingovernabilità la polizia erige confini, barriere valicabili solo da chi si ritiene utile, da chi si è identificato.
“Ogni sbirro è una frontiera”, più che uno slogan, sembra essere l’odiosa quotidianità di un numero sempre maggiore di persone, lì dove chi si è diventa la discriminante tra il poter camminare liberamente per strada e l’essere denunciato, incarcerato o deportato in un centro per averlo fatto.
Rendere illegale la permanenza nello spazio pubblico significa rivendicarne il totale governo, ambire alla completa gestione della vita che lo attraversa. Una posta in palio che va oltre l’incostituzionalità di un foglio di via o la rivendicazione di un diritto alla cittadinanza.
Parallelamente al Capitale, chi si organizza per attaccarlo, o semplicemente per sopravvivergli, trova anch’esso le proprie geografie. Case occupate, strade discrete, vicini solidali, rifugi estemporanei e complicità sovversive.
Erigere un confine significa tagliare queste rotte, frapporsi tra l’individuo e il suo mondo ponendone delle condizioni di accesso.
Se sei produttivo e lavori sotto salario, se hai una residenza rintracciabile, se la liceità dei tuoi interessi è comprovata ti è concesso rimanere, fino a nuovo ordine.
La legalità dell’abitare è sottomessa al suo essere economia, nell’accezione più ampia del termine.
In una città dove ci sono più alberghi che case rivendichiamo il nostro abitare illegalmente, la possibilità di vivere ovunque si trovino dei validi motivi per farlo.
Rivendichiamo l’improduttività economica delle nostre vite, tutti i nostri illeciti interessi, la criminalità dei nostri affetti, la pericolosità di pensare di poter fare a meno di prigioni e carcerieri.
Il foglio di via non è altro che un confine, l’ennesimo e più labile di altri, tra una presenza non giustificata e un mondo sempre più assente da sè stesso, popolato di estranei.
Il momento attuale ce lo insegna chiaramente: ogni qual volta si incontra un confine si può trovare la forza necessaria per abbatterlo, svelandolo in tutta la sua fragilità di carta e cemento.
Non ne rimarrà che il fragore del suo schianto.