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Non si uccide così una città?/ Strada Nova

La velocità con la quale il tessuto urbano di Venezia cambia ha sempre cozzato con il ritmo lento e tortuoso della vita che, nei suoi angoli, si è dispiegata nel corso dei secoli. Negli ultimi anni l’apertura selvaggia di nuovi hotel, bed and breakfast e, in genere, attività commerciali rivolte ai visitatori ha costretto chi abita la città lagunare ad adottare nuove geografie, sempre più marginali e ghettizzanti in rapporto al vecchio centro cittadino. Scorgere l’inizio di questi cambiamenti nelle pieghe della storia può tornare utile per vincere l’alienazione e l’incapacità di interpretare gli eventi propria della nostra epoca, per ri-trovarsi nonostante il museo a cielo aperto che ci circonda.


Strada Nova è, formalmente, il toponimo che designa il tratto di passeggio posto tra Campo Santa Fosca e Campo Santi Apostoli ma, per estensione, viene comunemente usato per chiamare tutta la via che collega quest’ultimo campo (da cui è possibile arrivare al “centro” vero e proprio, Rialto)  alla Stazione Ferroviaria. Indicativo che il termine “Nova” venga tutt’ora utilizzato, a scapito dell’ufficiale denominazione “Vittorio Emanuele”,  per riferirsi a tre interventi urbanistici distinti, avvenuti ormai tra il 1818 e il 1871, di cui avremo poi modo di raccontare. Indicativo almeno quanto il fatto che, ad oggi, la “Nova” resta l’unica “Strada” così  chiamata, e pertanto “degna di questo nome”, tra le innumerevoli calli, calleselle, salizade, liste, fondamente, rive, rii terà che costituiscono l’intricata toponomastica veneziana.

Il primo intervento di “riqualificazione” del sestiere di Cannaregio risale al 1818, con la città sotto dominazione austriaca. Viene interrato il Rio Do Ponti, compreso tra il Ponte delle Guglie e il Campiello dell’Anconeta, per creare una direttrice pedonale a destinazione commerciale tra le due metà di un sestiere economicamente depresso e ancora periferico. Un intervento che condizionerà, inevitabilmente, le scelte urbanistiche dei due secoli successivi.

Sempre sotto gli austriaci, tra il 1841 e il 1846, viene costruito il ponte ferroviario tra Venezia e la terraferma. La città si ritrova proiettata verso occidente, con un “terminal” nuovo di zecca. Nel 1844 è stato infatti interrato il segmento acqueo tra il Ponte delle Guglie e la chiesa di Santa Lucia. L’assetto di Cannaregio ne esce completamente stravolto: da periferia residenziale diventa l’asse privilegiato di collegamente tra il centro e la Stazione dei treni.

Tra il 1866 (annessione del Vento al neonato Regno d’Italia) e il 1871 viene infine spianato l’ultimo tratto di strada tra il ponte dell’Anconeta e Campo Santi Apostoli, a spese di abitazioni povere e considerate fatiscenti. La scelta del progetto dell’architetto Papadopoli scartò l’alternativa a firma Meduna, meno invasiva in termini di abbattimenti, cogliendo in pieno lo spirito dell’epoca: solo pochi anni prima il barone Haussmann aveva iniziato a sventrare il centro di Parigi, costruendo quei monumenti alla contro-insurrezione chiamati boulevards.

Una curiosità: l’intera Strada Nova presenta una larghezza media di 10 metri, più del doppio dell’ampiezza media delle comuni calli, e una sola strettoia, calle dell’Anconeta, mantenuta tale per evitare di abbattere la casa dell’ingegnere capo dei lavori comunali.

L’ edificazione del Ponte Littorio (il collegamento automobilistico affiancato alla linea ferrovia, ora Ponte della Libertà) e di Piazzale Roma (il suo terminal) in pieno periodo fascista non interferisce con il flusso proveniente via rotaia: le direttrici di scorrimento restano di fatto separate fino al 2008, con la costruzione del Ponte della Costituzione ad opera di Santiago Calatrava. Il nuovo “quarto ponte sul Canal Grande” connette il terminal automobilistico con quello ferroviario, unificando i flussi delle due direttrici principali proprio su Strada Nova, stravolgendone completamente l’aspetto e la quotidianità.

154 anni dopo la gentrificazione della città riparte dalla sua stazione dei treni: in meno di sette anni Santa Lucia diviene una galleria commerciale, fruibile da chi arriva a Venezia in macchina o in autobus, le attività della zona acquisiscono una vocazione esclusivamente turistica. Aprono filiali di grandi catene e chiudono i già pochi esercizi riservati ai residenti. Da zona vissuta e vivace ad arteria a grande scorrimento il passo è più repentino che mai.

Ha provocato qualche scalpore la notizia, una settimana fa, della chiusura dello storico negozio di biancheria di Aldo “Mudanda” Vianello, meglio noto per essere il padre dell’improbabile dj e star del grande Fratello Tommy Vee, conseguente all’acquisto del fondo da parte del colosso dell’abbigliamento per teenager spagnolo Double Agent, ai piedi del Ponte delle Guglie. A pochi passi di distanza, il 10 gennaio prossimo, aprirà invece un’altra filiale di Tiger (catena che da poco possiede un punto vendita proprio nella stazione) in luogo del panificio “Rizzo”. Sempre in Rio Terà San Leonardo ha da poco aperto la “Casa dea Corte”, un locale a metà tra un ristorante e un Bed and Breakfast, vicinissimo al recentemente ristrutturato Hotel Filù. Quest’ultimo, un paio di mesi fa, è stato al centro di una non troppo interessante polemica tra consiglieri comunali: la proprietà del Filù risulta essere della consigliera ex Pdl Marta Locatelli, affidata in gestione alla ” Rental in Italy”, società presieduta dal marito della stessa. La Locatelli, da sempre pronta a denunciare l’inesistenza di una politica sulla residenza nel Comune, ha chiesto il cambio di destinazione d’uso, da residenziale a ricettivo, per la parte dell’immobile non ancora diventata albergo e per altri stabili di sua proprietà.

La storia recente di Strada Nova è troppo simile alla storia di altri pezzi di città, perduti nella loro dimensione più intima e vivibile nel corso di un breve periodo di tempo. L’unica “Strada” di Venezia è divenuta definitivamente tale in pochi anni, a più di un secolo e mezzo dalla sua progettazione.

Non dovrebbe stupire quindi che qualcuno, per finire in bellezza una serata, abbia deciso di percorrerla in macchina, una gelida notte di carnevale di quattro anni fa. Manco a dirlo, per l’impavido automobilista, scattò il foglio di via da Venezia.

autocalatrava


Corteo selvaggio : riempito di scritte il centro città, banche distrutte, vernice su negozi di lusso e monumenti.

Circa 500 persone hanno preso parte alla manifestazione di sabato sera ma è un piccolo gruppo di circa 50 individui mascherati che si è reso responsabili dei danni stimati in decine di migliaia di euro, secondo le ultime stime.

Un giornale descrive i facinorosi come un “frangia estrema degli anarchici e degli anti-capitalisti animati dal desiderio di lanciare una sfida allo stato”

Gli uffici delle banche sono stati presi di mira insieme al Teatro Grande, la casa dell’ opera e altri negozi compreso uno gestito da un esponente del Movimento dei Cittadini e militante di estrema destra.

Le vetrine di almeno 20 negozi sono state distrutte e su decine di edifici è stata spruzzata vernice.

I manifestanti si sono riuniti in un parco vicino la stazione dei treni è hanno attraversato il centro città fino al Teatro dell’Opera, dove la facciata e le statue sono state sfregiate con la pittura. Gli episodi accadono mentre la zona resta in stato d’allerta da più di una settimana per una possibile minaccia terrorista legata alla jihad.

Il comandante della Polizia difende l’operato delle forze dell’ordine durante la manifestazione .

“Gli agenti sapevano che erano pianificate delle azioni ma non conoscevano precisamente quali fossero le intenzioni del gruppo ” “di fronte a questo tipo di criticità, il lavoro della polizia inizialmente include il monitoraggio della situazione per prevenire possibili reati mettendo in sicurezza luoghi particolarmente sensibili come la zona dello shopping di lusso, palazzi ed edifici istituzionali, comprese le stazioni della polizia”

E intanto le vetrine di molti negozi di lusso e banche sono state distrutte o coperte di scritte con messaggi come “I ricchi sono brutti”, “Fanculo questa società”, “Morte agli sbirri” e simboli comunisti e anarchici.

La facciata del teatro più importante dellla città, il Teatro Grande del 19esimo secolo e le statue poste al suo ingresso sono state macchiate con vernice nera e di altri colori, intervallata da scritte di colore bianco.

Molti resoconti evidenziano la lentezza d’intervento della questura, che è finita nell’occhio del ciclone. “Il danno è considerevole” ammette il portavoce della Polizia cittadina.

Lo scellerato corteo (non autorizzato) è stato lanciato sui social media per protestare contro i tagli al budget che colpiscono diverse realtà artistiche anche cittadine mentre “si sovvenziona il Teatro Grande, luogo di cultura borghese con prezzi fuori dalla portata per la maggior parte della gente”.

La polizia ha bloccato diverse parti della città per cercare di limitare la circolazione della manifestazione senza però effettuare arresti “E’ difficile effettuare arresti nei momenti più concitati. Adesso stiamo investigando per chiarire di chi sono le colpe” spiegano dalla questura, difendendo la scelta di aver evitato lo scontro con gli anarchici.

Domenica mattina, il giorno dopo il corteo, gli abitanti della città apparivano sconcertati dai danni, e molti di loro e si fermavano per fotografare l’inizio dei lavori di pulizia della facciata del Teatro Grande.

Il capo del Ministero per la Sicurezza cittadino, si è dichiarato “furioso e scandalizzato per questo intollerabile atto vandalico” ” Abbiamo a che fare con una banda di teppisti professionisti” e si è augurato che vengano “severamente puniti.

Ginevra 19 dicembre 2015.

mort aux flics


Chi non va in vacanza

E’ di oggi la notizia ufficiale che il Comune di Venezia si dichiarerà parte civile per quanto riguarda la pulitura delle scritte sui muri lasciate dopo il corteo del 5 dicembre. Il primo cittadino prende la palla al balzo per dichiarare la volontà di vietare le manifestazioni nella zona di Santa Margherita ( “C’è già tanta gente, così è facile dire che la manifestazione è riuscita. Sic)e di spostarne la caratterizzante “movida” in zona Stazione Marittima.  Una decisione, ci sembra, perfettamente in linea con i tempi e i progetti, ormai non più tanto nascosti, di gentrificazione della zona di Santa Marta. Un quartiere ancora tagliato fuori dai flussi turistici e commerciali che attraversano il resto di Venezia e che si vorrebbe “aprire” alla città costruendovi un campus universitario e un distretto del divertimento a pochi passi di distanza. Museificare uno degli ultimi campi ancora vivi, pur con tutte le contraddizioni del caso, per ghettizzare ulteriormente chi ha l’ardire di provare a vivere la propria città anche dopo le sette di sera, e tanto meglio se l’Autorità Portuale o il Costa di turno due palanche riescono a guadagnarle.

Nel frattempo, nonostante il gelo dicembrino, la situazione nei penitenziari della regione non accenna a raffeddarsi. Oggi, verso le sette di sera, una forte battitura ha coinvolto la sezione numero tre del carcere di Vicenza. Le motivazioni non sono ancora note, ma si tratta dell’ennesimo episodio simile che in questo 2015 ha coinvolto la popolazione detenuta nel San Pio X.

A Venezia ancora nessuna notizia ufficiale sulle cause della morte di Manuel, avvenuta il 28 novembre scorso tra le mura del carcere veneziano. E’ sempre di oggi invece la notizia che, verso mezzogiorno, due ragazzi marocchini hanno incediato la propria cella a Santa Maria Maggiore, intossicando alcuni agenti. Secondo le ricostruzioni dei giornali i due sarebbero poi stati tradotti in ospedale per gli accertamenti del caso. Evidentemente la recente visita del Patriarca in occasione del Giubileo non ha portato chissà che speranza tra le sbarre del penitenziario lagunare.

Qui sotto, con i migliori auguri di Natale, l’opera di alcuni vandali.

 

Una delle scritte lasciate dagli anarchici che hanno imperversato nel centro storico di Venezia, 05 dicembre 2015. ANSA


Vicenza odia, la polizia non può sparare

Bel presidio oggi in quel di Vicenza. Nonostante il freddo un buon numero di solidali ha ribadito la propria vicinanza ai ragazzi del San Pio X, raccontato di Manuel (detenuto morto di recente nel carcere di Venezia) e della manifestazione in solidarietà ai detenuti e contro i fogli di via di sabato scorso.

Che la polizia fosse particolarmente nervosa lo si era già capito a metà giornata, quando un impavido dirigente di piazza, individuando un paio di malintenzionati intenti a battere delle pietre contro una recinzione per far rumore, ha iniziato ad attaccarsi alla radiolina per chiamare rinforzi.

Ma il vero film d’azione inizia a presidio terminato. Alcuni solidali rientrano alle macchine dopo un colorato e rumoroso saluto, a cui i reclusi hanno risposto con una battitura. Sul loro percorso irrompe una macchina della polizia, portiera spalancata, da cui scendono nientepopodimeno che due secondini (!) imbruttiti che, mano sul ferro d’ordinanza, tentano goffamente di placcare chi se ne sta andando.

Sirene spiegate in via della Scola, sopraggiungono altri tutori dell’ordine che identificano tutti i presenti e se ne vanno. Nel frattempo una vettura particolarmente intrepida viene inseguita fino al distributore di benzina più vicino, gli sbirri scendono e, con tanto di pistole spianate e battute da copione (“Fine della corsa!”), intimano i presenti a mettersi faccia a terra.

Piano sequenza su periferia veneta con nebbia crescente. Stacco. Alla prossima.

vicenza odia


Trasferimenti e fogli di via?Saremo ovunque!

Continuano ad arrivare notizie di numerosi trasferimenti dal carcere di Venezia ad altri penitenziari della regione. C’è chi parla di un ritmo di una decina di “sballati” al giorno. Benché siano ancora da capire le ragioni di tali spostamenti, riteniamo necessario seguire quei fili invisibili che hanno determinato il dispiegarsi delle lotte degli ultimi mesi.

Domenica 13 dicembre è stato organizzato un presidio sotto il San Pio X, a Vicenza. Un carcere balzato agli onori delle cronache a fine ottobre per i vermi e gli scaraffaggi rinvenuti nel vitto dei secondini e per diversi episodi di insubordinazione. Un racconto di questi fatti potete trovarlo qui.

Di seguito pubblichiamo la locandina e l’appello scritto dagli organizzatori. Ci vediamo a Vicenza.


 

Domenica 13 dicembre
ore 15.00
Presidio al San Pio X per rompere il silenzio assordante che ci separa da chi vive oltre le mura del carcere di Vicenza.

In tutto il Veneto, la situazione dentro alle galere è esplosiva: diverse sono state le proteste dei detenuti da Venezia a Vicenza, passando per Verona.
La solidarietà è l’arma più grande per dare forza e non lasciare soli i prigionieri che si ribellano contro condizioni di detenzione al limite della dignità e ogni sorta di angheria o sopruso da parte di secondini e amministrazione penitenziaria.
Da fuori il sostegno alle rivendicazioni di chi lotta è scomodo, lo dimostrano le decine di fogli di via dispensati ai solidali che hanno sostenuto le mobilitazioni di questi ultimi mesi. Non sarà la repressione a frenare la nostra passione per la libertà.
Il carcere non è la soluzione, ma parte del problema!
Interventi, microfono aperto, musica e concerto hip-hop con Mistura mortale crew

Il carcere si trova in Via Basilio dalla Scola 150

presidio vicenza 2

 


Per chi ha orecchie per sentire

Sabato scorso un corteo ha attraversato le calli e i campi di Venezia.
Un corteo che voleva mettere al centro la solidarietà verso i detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore e gli ormai 20 compagni e compagne colpiti dai fogli di via.
Provvedimenti di allontamento emessi dalla questura proprio a seguito della vicinanza dimostrata alle mobilitazioni dei carcerati, in lotta contro le disumane condizioni di detenzione, le angherie delle guardie e le sadiche disposizioni dell’amministrazione.
Una situazione che è lungi dall’essere risolta a Venezia come in altre carceri del Veneto, dove continuano a susseguirsi episodi di insubordinazione e ribellione da parte dei detenuti e dove la presenza di solidali, pronti a dar voce a ciò che succede dentro, inizia a spaventare per la sua efficacia.
Un corteo che volevamo così. In grado di muoversi per la città grazie ai legami che ha saputo costruire attorno a questa lotta, garantendo il fatto che le persone con il foglio di via potessero parteciparvi, comunicando con molte pratiche: dall’attacchinaggio al volantino, dal microfono aperto alle scritte.
Scendere in piazza ha significato riappropriarsi dello spazio, lì dove ci sarebbe stato vietato.
Dispositivi come la videosorveglianza, il foglio di via o il permesso di soggiorno, la gentrificazione dei quartieri sono funzionali a mantenere il dominio della merce sulla vita.
A presiedere l’esistenza di tutti questi dispositivi vi è quella fabbrica di rassegnazione chiamata carcere, primo pilastro dell’ordine sotto al quale nulla deve accadere.
La scelta della polizia di presidiare in forze quest’ultimo, assieme al Tribunale e alla Questura, e la “galleria commerciale” tra Rialto e San Marco risponde in pieno a questa esigenza: difendere l’immagine delle Istituzioni e garantire il quieto scorrere dei flussi mercantili.

Molto è stato scritto sugli esiti della giornata.
L’indignazione per le scritte lasciate sui muri, sulle vetrine delle banche o di negozi di lusso fa il paio con chi, senza aver mai rischiato di finire in un carcere, invoca la galera a vita per chi usa una bomboletta spray.
Non ci stupisce, è lo spirito dell’epoca.
Il “Cleaning day” chiamato per “ripulire lo scempio anarchico” assomiglia tanto, troppo, al “popolo delle spugnette” del 2 maggio a Milano, come alla marcia in difesa della Repubblica, convocata dai peggiori guerrafondai d’Occidente, in seguito alla strage di Charlie Hebdo.
Momenti in cui chi governa invita a prendere posizione, la loro posizione, per farla diventare l’unica possibile.Contarsi in seguito al manifestarsi di una minaccia, reale o immaginaria, è l’unico modo per fingere che esista ancora una società a cui aggrapparsi.
Un’operazione che trova ampio risalto quando si riesce, letteralmente, a far ammalare di terrore una popolazione, rovesciando il significato delle parole e delle azioni.
Parlare di “scempio” e “paura” riguardo alla manifestazione di sabato ci sembra l’ennesima occasione persa per parlare della realtà.
Lo “scempio” di Venezia è abitare in una città dove ci sono più alberghi che case abitate, dove ogni anno cinquecento persone vengono deportate a spostarsi in terraferma per lasciare spazio a un numero sempre maggiore di turisti.
Lo “scempio” è lasciare che il patrimonio storico venga venduto, per sempre, al ricco investitore di turno, accorgendosi della sua esistenza solo quando questo viene imbrattato.
Lo “scempio” è dover camminare chilometri per fare la spesa, perchè tutte le vetrine sono diventate negozi di maschere e souvenir.
Lo scempio è permettere che esista un luogo di tortura come Santa Maria Maggiore, dove si continua a morire, e che si scenda in piazza per cancellare delle scritte sui muri.
La “paura” è non poter camminare per la città dove si è scelto di vivere senza il timore di venire fermato, identificato e espulso per avere i documenti non in regola o un foglio di via.
Paura la fanno i militari nelle calli equipaggiati come nelle zone di guerra, i poliziotti che ammazzano nelle caserme, i giudici pronti a sbatterti in cella per avere del fumo in tasca o aver rubato a un supermercato.
Paura la fa il carcere, quando si è soli e senza nessuno con cui potersi ribellare.

Pensiamo sia opportuno, in questa fase, non aggiungere ipocrisia all’ipocrisia.
Sappiamo bene che le modalità con cui si è stati in piazza sabato scorso possono non piacere a tutti.
Siamo consci che, in una città organizzata per essere nient’altro che un museo, una presenza che rifiuta il proprio essere nient’altro che merce possa apparire intollerabile.
Scriviamo queste riflessioni, come sempre, per chi ha ancora orecchie per sentire, oltre il martellamento mediatico dei giornali e il tintinnare delle manette.


Lagne e infamità

In questo articolo riportiamo per intero una lettera firmata “dei semplici (?) poliziotti penitenziari”, pubblicata oggi sulla Nuova di Venezia.

A chi avese avuto la sventura di finire in carcere, di avere un parente o un amico rinchiuso, di conoscere la prigione, anche da fuori, per quello che realmente è la sola lettura di questo testo dovrebbe bastare a rendere l’idea di che razza di esseri sono i secondini. Per tutti gli altri, le note in calce.

Buona lettura.


“Un carcere gestito dai detenuti”

Il carcere di Santa Maria Maggiore è arrivato all’ennesima pagliacciata in fatto di gestione, trattamento e rieducazione dei detenuti. Termini o parole che fino a qualche tempo fa avevano un significato e un peso notevole all’interno dell’istituto (1), così come era tato pensato, ideato e messo in pratica dai compilatori ed esecutori del trattamento (2) penitenziario, riassunto nel motto della Polizia penitenziaria “Vigilando redimere”.

I poliziotti penitenziari non possono più procedere(3) verso i detenuti che -“poverini”- hanno diritto a distruggere celle, mettere a soqquadro un’intera sezione, minacciare i poliziotti e gli altri operatori penitenziari (infermieri, dottori, etc) con le lamette, gridare, dare fuoco agli armadietti delle stanze (4), tutti costi che dopo vengono addebitati alla collettività educata che vive fuori dal carcere, ovvero noi cittadini, in quanto queste persone “brave e meritevoli” si fanno risultare nulla tenenti e se solo il personale vestito con una divisa che dovrebbe rappresentare lo Stato, ovvero l’autorità, si permette di pronunciare parole quali “fai silenzio o stai zitto”, vengono perseguiti e allontanati dai dirigenti, perchè così facendo è un’istigazione.

Guai soprattutto a eseguire una qualsiasi perquisizione sulla persona di questi soggetti, perchè gli si mette “le mani addosso”, viene visto come un maltrattamento nei loro confronti . Però, dopo, vengono richieste le motivazioni per cui si trovano proiettili dentro le sezioni, o circolano sostanze stupefacenti. Lo stesso comandante di reparto deve avere il permesso di parlare dai detenuti, il direttore non svolge il Consiglio di disciplina perchè ha paura di peggiorare la situazione, quindi è meglio chiudere gli occhi affinché questi delinquenti finiscano in fretta il fine pena e si levano (sic) di torno dall’istituto, con il paradosso che, rimessi in libertà, questi in meno di qualche settimana, rientrano in carcere per qualche altro reato che periodicamente leggiamo sui giornali, e dove tutti ci indigniamo.

A questo punto l’indignazione è una pura mascherata di fronte all’opinione pubblica. Adesso, comunque, i poliziotti penitenziari hanno la possibilità, se vogliono cambiare lavoro, di fare domanda direttamente agli hotel e alberghi extralusso, perchè non penso che in queste strutture ci sia il personale che accompagna il “cliente” in giro per tutta la struttura e far scegliere la stanza dove trascorrere le ferie pagate, tutto compreso, vitto-alloggio-quotidiano-visite mediche-dallo Stato; si è arrivati anche a questo negli ultimi giorni (5).

Ormai l’opinione pubblica deve capire che le grate che vede alle finestre dei carceri (sic) servono per tenere lontani i cittadini onesti da questo paradiso, e i poliziotti penitenziari sono diventati i “gorilla” dei detenuti affinché stiano tranquilli dai delinquenti che siamo noi cittadini.


Prendendo le distanze dall’imbarazzante sintassi, un paio di annotazioni:

(1)Termini come “gestione, trattamento, rieducazione” hanno avuto effettivamente un significato ed un peso notevole, fino a qualche tempo fa. Ricordiamo tutti i bei tempi della cella 408, la “liscia”, una stanza priva di arredamento e suppellettili usata per sbatterci dentro, nudi, i detenuti più impertinenti. Li devono ricordare in particolar modo gli amici e i parenti di Cherib, il ragazzo marocchino lasciato impiccare dai secondini nella suddetta cella nel 2009.

(2)Interessante che la permanenza in carcere, anche in attesa di giudizio, venga interpretata dai suoi guardiani come un “trattamento”. Una redenzione che passerebbe attraverso cibo marcio, illuminazione scarsa o inesistente, sadiche angherie quali il divieto di fare telefonate, il divieto di giocare a pallone, il divieto di leggere nella propria lingua madre e via dicendo.

(3)In pratica, come viene meglio esplicitato nelle righe successive, si lamenta il fatto di non poter più alzare le mani sui detenuti. Diversamente dai comunicati dei sindacati di polizia che abbiamo avuto modo di leggere, dove le lagne erano sempre funzionali a chiedere un miglioramento della propria misera condizione di lavoro, in questa lettera emerge tutta la frustrazione di dover sottostare a un regolamento troppo rigido e il rancore provato verso i “poveretti”.

(4)Gli echi e l’efficacia delle rivolte estive a Santa Maria Maggiore continuano a farsi sentire, e non può che farci piacere. Rivolte maturate, vale la pena ricordarlo, da condizioni di detenzione insostenibili ed esplose sempre dopo prepotenze delle guardie. Momenti di insubordinazione che hanno portato dei miglioramenti, anche se sempre troppo piccoli, all’interno del carcere, molti dei quali sono probabilmente l’oggetto della lamentela dei “semplici poliziotti”. Il “diritto di distruggere celle” di cui si parla non può essere che l’estrema conseguenza di una situazione insopportabile dove, per farsi minimamente valere, si arriva a devastare anche il proprio ridotto spazio vitale, gli oggetti quotidiani, quando non il proprio stesso corpo. Parlando di “lamette” ricordiamo tutti i ragazzi che, per avere un incontro con un congiunto o per lavorare in carcere, hanno praticato atto di autolesionismo, tagliandosi o ingoiando batterie.

(5)Il gran hotel con cui si fa il paragone è un posto dove le “stanze” ospitano il doppio delle persone previste, dove non c’è lo spazio per stare in piedi tutti nello stesso momento e manca completamente l’intimità. Dove, in un anno, sono morte due persone (Adrian, impiccatosi in cella e Manuel, pochi giorni fa, in circostanze ancora da chiarire) e non si contano i tentativi di suicidio. Un luogo dove, e qui i secondini ci azzeccano, chi è rinchiuso diventa il “cliente” di un sistema dai contorni indefiniti, pagando di tasca propria i generi di prima necessità, i costi di eventuali danni e il proprio mantenimento.

Traspare chiaramente una malcelata invidia nei confronti di chi, pur scontando una pena o in attesa di giudizio, a differenza di chi scrive prima o poi uscirà dal carcere. Un’invidia così viscerale che non si tace nemmeno per decenza, a pochi giorni dalla morte di un ragazzo fra le mura di quel luogo infernale.

Nulla di nuovo, si potrebbe dire.

Eppure tutto ciò non la smette di farci schifo.