Per chi ha orecchie per sentire

Sabato scorso un corteo ha attraversato le calli e i campi di Venezia.
Un corteo che voleva mettere al centro la solidarietà verso i detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore e gli ormai 20 compagni e compagne colpiti dai fogli di via.
Provvedimenti di allontamento emessi dalla questura proprio a seguito della vicinanza dimostrata alle mobilitazioni dei carcerati, in lotta contro le disumane condizioni di detenzione, le angherie delle guardie e le sadiche disposizioni dell’amministrazione.
Una situazione che è lungi dall’essere risolta a Venezia come in altre carceri del Veneto, dove continuano a susseguirsi episodi di insubordinazione e ribellione da parte dei detenuti e dove la presenza di solidali, pronti a dar voce a ciò che succede dentro, inizia a spaventare per la sua efficacia.
Un corteo che volevamo così. In grado di muoversi per la città grazie ai legami che ha saputo costruire attorno a questa lotta, garantendo il fatto che le persone con il foglio di via potessero parteciparvi, comunicando con molte pratiche: dall’attacchinaggio al volantino, dal microfono aperto alle scritte.
Scendere in piazza ha significato riappropriarsi dello spazio, lì dove ci sarebbe stato vietato.
Dispositivi come la videosorveglianza, il foglio di via o il permesso di soggiorno, la gentrificazione dei quartieri sono funzionali a mantenere il dominio della merce sulla vita.
A presiedere l’esistenza di tutti questi dispositivi vi è quella fabbrica di rassegnazione chiamata carcere, primo pilastro dell’ordine sotto al quale nulla deve accadere.
La scelta della polizia di presidiare in forze quest’ultimo, assieme al Tribunale e alla Questura, e la “galleria commerciale” tra Rialto e San Marco risponde in pieno a questa esigenza: difendere l’immagine delle Istituzioni e garantire il quieto scorrere dei flussi mercantili.

Molto è stato scritto sugli esiti della giornata.
L’indignazione per le scritte lasciate sui muri, sulle vetrine delle banche o di negozi di lusso fa il paio con chi, senza aver mai rischiato di finire in un carcere, invoca la galera a vita per chi usa una bomboletta spray.
Non ci stupisce, è lo spirito dell’epoca.
Il “Cleaning day” chiamato per “ripulire lo scempio anarchico” assomiglia tanto, troppo, al “popolo delle spugnette” del 2 maggio a Milano, come alla marcia in difesa della Repubblica, convocata dai peggiori guerrafondai d’Occidente, in seguito alla strage di Charlie Hebdo.
Momenti in cui chi governa invita a prendere posizione, la loro posizione, per farla diventare l’unica possibile.Contarsi in seguito al manifestarsi di una minaccia, reale o immaginaria, è l’unico modo per fingere che esista ancora una società a cui aggrapparsi.
Un’operazione che trova ampio risalto quando si riesce, letteralmente, a far ammalare di terrore una popolazione, rovesciando il significato delle parole e delle azioni.
Parlare di “scempio” e “paura” riguardo alla manifestazione di sabato ci sembra l’ennesima occasione persa per parlare della realtà.
Lo “scempio” di Venezia è abitare in una città dove ci sono più alberghi che case abitate, dove ogni anno cinquecento persone vengono deportate a spostarsi in terraferma per lasciare spazio a un numero sempre maggiore di turisti.
Lo “scempio” è lasciare che il patrimonio storico venga venduto, per sempre, al ricco investitore di turno, accorgendosi della sua esistenza solo quando questo viene imbrattato.
Lo “scempio” è dover camminare chilometri per fare la spesa, perchè tutte le vetrine sono diventate negozi di maschere e souvenir.
Lo scempio è permettere che esista un luogo di tortura come Santa Maria Maggiore, dove si continua a morire, e che si scenda in piazza per cancellare delle scritte sui muri.
La “paura” è non poter camminare per la città dove si è scelto di vivere senza il timore di venire fermato, identificato e espulso per avere i documenti non in regola o un foglio di via.
Paura la fanno i militari nelle calli equipaggiati come nelle zone di guerra, i poliziotti che ammazzano nelle caserme, i giudici pronti a sbatterti in cella per avere del fumo in tasca o aver rubato a un supermercato.
Paura la fa il carcere, quando si è soli e senza nessuno con cui potersi ribellare.

Pensiamo sia opportuno, in questa fase, non aggiungere ipocrisia all’ipocrisia.
Sappiamo bene che le modalità con cui si è stati in piazza sabato scorso possono non piacere a tutti.
Siamo consci che, in una città organizzata per essere nient’altro che un museo, una presenza che rifiuta il proprio essere nient’altro che merce possa apparire intollerabile.
Scriviamo queste riflessioni, come sempre, per chi ha ancora orecchie per sentire, oltre il martellamento mediatico dei giornali e il tintinnare delle manette.


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