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Caldo d’agosto

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Questo testo vuole essere prima di tutto un racconto di ciò che è avvenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia tra i mesi di luglio e agosto. Molte delle vicende in questione sono ancora in corso, abbiamo sentito la necessità di metterle nero su bianco perché riteniamo possano essere dei punti di partenza per una discussione allargata sul carcere, sul suo funzionamento e sugli incontri che, dentro e fuori di esso, possono avere luogo.

 

In estate le condizioni di chi è recluso diventano ancora più difficili. Il caldo, in una situazione di sovraffollamento coatto, con spazi di movimento ridottissimi, può rendere la quotidianità insopportabile, spingere chi è dentro a gesti e azioni prima impensati. Esattamente ciò che è avvenuto nel penitenziario veneziano di recente: è di metà luglio la notizia che un ragazzo recluso, per protestare contro il proprio trasferimento in una sezione con le porte sempre chiuse, ha incendiato i materassi della cella, intossicando tre agenti.

Da questo episodio ogni piccola provocazione delle guardie contribuisce ad esasperare il clima generale: il 27 luglio un detenuto, trattenuto dai secondini in malo modo, stacca con un morso una falange a uno di questi. La rappresaglia della direzione è tempestiva e, come al solito, diretta a tutti: vengono chiusi i blindi per tutto il giorno.

Il 29 luglio, nel tardo pomeriggio, una forte battitura scuote le mura e la monotonia di Santa Maria Maggiore.

Nonostante il ricatto sempre presente dei “richiami”, un provvedimento che annulla le cospicue riduzioni di pena in caso di buona condotta, la maggior parte dei ragazzi decide di prendere parte alla protesta. Urla e battiture di piatti e pentole contro le sbarre, più un giorno intero di sciopero della fame.

I rumori vengono sentiti in tutto il circondario e attirano l’attenzione di chi vive e passa lì vicino. Una cinquantina di persone si raduna sotto il carcere, improvvisando un presidio in solidarietà. Le cause scatenanti della protesta non sono ancora chiare, ma sono ben note le condizioni disumane in cui i detenuti trascorrono le loro giornate.

“Non va bene un cazzo, ci trattano come bestie” dicono da dentro.

Si innesca un “botta e risposta” , tra chi fa casino dentro e chi fuori, che dura tutto il pomeriggio, tra gli sguardi sbigottiti delle guardie e degli sbirri accorsi a dare man forte. Questi ultimi, al passaggio dei solidali davanti all’ingresso, spauriti, si chiudono goffamente dietro la pesante porta di ferro del carcere.

La solidarietà continua anche il giorno seguente: viene organizzato un altro presidio con musica e pentole per far rumore. La risposta dentro è forte, la paura dei ricatti sbirreschi sembra già un ricordo lontano.

“Libertà, hurriya! Guardie bastarde!”. Vengono scambiati, in diversi modi, vari contatti tra detenuti e solidali: la voglia di comunicare è tanta.

Nei giorni successivi esce la notizia che la protesta è stata efficace. I blindi e le porte delle celle sono di nuovo aperte ed è possibile passeggiare liberamente tra i corridoi.

“Grazie a voi e al casino che avete fatto adesso abbiamo di nuovo le celle aperte” senza dimenticare che ogni supporto è inutile senza il coraggio di chi, da dentro, decide di ribellarsi, assumendosi le inevitabili conseguenze della propria rabbia.

“Il problema principale è la burocrazia, non permette di fare niente”, “ La direttrice ignora ogni richiesta. E’ impossibile telefonare e molto difficile ottenere i  colloqui”.  Ma anche “Qui dentro si respira l’integrazione, quella vera, non quella ipocrita del falso sorriso che c’è fuori” .

Le finestre dei corridoi sono, inoltre, aperte per la maggior parte del tempo. Il passaggio sotto il carcere, se prima dava solamente un senso di impotenza e frustrazione è, ora, un modo per rompere in parte l’isolamento, vedere quelle mura sempre più sottili.

”Qui in carcere non si gioca a calcio perché la direttrice non vuole” “In libreria non ci sono libri in arabo perché sono vietati”. Dentro Santa Maria Maggiore pare che ogni cosa in grado di allietare, anche per poco, le giornate sempre uguali sia vietata, o comunque sia difficilissimo accedervi.

“Resterebbe solo il calcio balilla, ma è rotto pure quello e nessuno viene ad aggiustarlo”, “ho fatto richiesta di accedere in palestra e, per fortuna!, dopo tre mesi me l’hanno accettata”.”Sto scrivendo domandine ogni giorno per parlare con educatore e psicologo e da due settimane nessuno mi sta cagando”.

Anche la sala computer dove dovrebbe venire redatto il giornalino del carcere, tramite un progetto finanziato dal Comune, pare sia considerata dalla direzione inaccessibile e, pertanto, rimane chiusa.

Il 2 agosto un presidio di qualche decina di persone racconta la protesta dei detenuti di S. Maria Maggiore  alle ragazze del carcere femminile della Giudecca : dal microfono si aggiornano le detenute su quanto sta succedendo nel maschile e in altre prigioni italiane.

Il 21 agosto si è nuovamente sotto le mura, in Rio Terà dei Pensieri. Con musica, giocolieri e aria di festa si parla con i ragazzi, cercando di movimentare un po’ il pomeriggio. Dopo poco intervengono i secondini, che chiudono le finestre più rivolte all’esterno.

Provvedimento che, tuttavia, non basta a fermare la voglia dei detenuti di stare assieme, comunicare, ballare: si riesce comunque a mantenere un contatto visivo, le richieste di canzoni si sentono a fatica tra le urla di entusiasmo. Qualcuno incendia dei fogli di giornale e inizia un’altra battitura. Si viene a sapere che un detenuto è in sciopero della fame da ferragosto per chiedere il trasferimento in un’ altra struttura.

 

Prima di iniziare a trarre delle considerazioni dai fatti qui raccontati va premesso che, per il carcere di Venezia, le mobilitazioni e le iniziative di questo mese presentano dei lati inediti. Nel corso degli ultimi anni non è mai mancata l’attenzione verso ciò che succedeva a Santa Maria Maggiore, né ci si è mai tirati indietro quando si trattava di far sentire la rabbia per fatti particolarmente gravi accaduti. Uno su tutti il recentissimo suicidio di Adrian, un ragazzo di 19 anni, morto impiccato nella propria cella a gennaio 2015. Anche fra i detenuti i momenti di protesta non sono mai mancati: ricordiamo tutti le battiture del 2009 a seguito del “suicidio procurato” di Cherib, o la battitura per il caldo e l’invivibilità della prigione del luglio 2013. La novità sta nel fatto che, il 29 luglio e nei giorni successivi, le due facce del dispositivo carcere, il dentro e il fuori, siano entrate in un rapporto di scambio reciproco fra di loro. Uno scambio che non sarebbe stata possibile se il carcere di Venezia non si trovasse in pieno centro cittadino.

Santa Maria Maggiore è un carcere storico e di vecchia costruzione. Come tutte le carceri costruite tra otto e novecento si trova immerso nel tessuto urbano della città, a pochi passi dalla principale porta d’accesso (Piazzale Roma) e non lontano dall’università e dai quartieri più vissuti. La sua posizione, unita alla particolare conformazione urbanistica di Venezia, fa in modo che i rumori e le voci dei detenuti non rimangano inascoltate. Un aspetto prezioso, rende relativamente facile avere dei contatti con l’esterno.

Con un po’ di fantasia possiamo provare a immaginare come questa caratteristica possa tornare utile per supportare vertenze e rivendicazioni dei reclusi. Osservare chi e cosa entra ed esce, salutare un amico, conoscere orari e ritmi del sistema carcere può essere una pratica quotidiana per supportare i detenuti e per attaccare il dispositivo carcerario con maggiore efficacia.

Supportare i prigionieri nelle loro lotte è un affare di tutti. Dentro come fuori.

Il carcere, il dispositivo che rinchiude insieme agli essere umani tutte le contraddizioni che la società produce, è un luogo dove la ribellione,la lotta sono una necessità di sopravvivenza e dignità.

Non dimentichiamo che ogni concessione e ogni miglioramento delle condizioni di vita nei penitenziari è stato guadagnato grazie alle rivolte e le battaglie dei carcerati.

Combattere per una finestra o una porta aperta, per dei libri, per giocare a pallone, per un trattamento meno disumano, con l’obiettivo di “vincere” anche su una singola rivendicazione è, anche in caso di sconfitta,  un modo per mettere in discussione i rapporti di sottomissione e isolamento  che garantiscono il funzionamento e l’esistenza di questa stessa società, non solo delle sue galere.

Se un prigioniero ripreso, rinchiuso, minacciato, umiliato  24 ore su 24 trova il coraggio di dar battaglia ai suoi aguzzini per strappare un centimetro di libertà, la possibilità di rivoluzionare anche solo alcuni aspetti della nostra vita appare come qualcosa in più di un semplice miraggio.


Nuove da dentro

Grazie a una presenza ai colloqui, in seguito alla protesta dello scorso 29luglio, e a qualche contatto da dentro abbiamo saputo che la battitura ha ottenuto il risultato che si era prefissata: il giorno seguente sono infatti stati riaperti i blindi, chiusi dopo la “mutilazione” della guardia.

A questo proposito trovate qui sotto un manifesto affisso nei giorni scorsi per la città

29LUGLIOSM


Urla e battiture a Santa Maria Maggiore

Succede lo scorso 29 luglio. Un caldo pomeriggio d’estate si riempie di urla e forti, fortissimi, rumori metallici. Il carcere di Santa Maria Maggiore, a due passi da Piazzale Roma e dal quartiere di Santa Marta, è teatro di una protesta calda e rumorosa. Si sono già sentite battiture e rumori tra queste mura, ma era da un bel po’ non erano così forti.

Tempo di chiamare gli amici e prendere su un paio di pentole per far casino, si raduna sotto il carcere un presidio improvvisato, tirando anche in mezzo qualche passante. Si urla con i detenuti, si improvvisa una battitura dall’esterno. Le guardie osservano, ben protetti dalle grate, e chiudono il portone d’ingresso. Non dev’essere una bella situazione, per loro.

Un piccolo corteo costeggia la struttura e, giunti in Rio Terà dei Pensieri, è possibile rispondere alle tante voci da dentro. “Non va bene niente” e “Aiutateci” le frasi più sentite. Nel frattempo, con sommo sbigottimento di digos e guardie giunte a monitorare la situazione, vengono usate le griglie di un cantiere per rispondere alla battitura. L’entusiasmo di fuori rilancia la rabbia che si respira dentro: quando sembra sul punto di affievolirsi, il casino riprende dopo aver sentito l’incitamente dei solidali.

La cosa prosegue per un paio d’ore, la poca polizia accorsa si rinchiude dietro il portone del carcere al passaggio di un altro piccolo corteo.

Pare che il tutto sia iniziato dopo che un detenuto, afferrato dai secondini in malo modo, abbia staccato con un morso la falange a uno di questi. Sembra, a leggere i giornali, che la situazione dentro il carcere veneziano sia divenuta da qualche tempo intollerabile: più di dieci aggressioni in due settimane. 

Il giorno successivo, con più pentole e un po’ di musica, si ritorna a sentire come stanno i ragazzi. Meno rabbia del giorno prima ma più parole, frasi che scardinano le sbarre e qualche nuovo nome da salutare. In serata qualche fuoco d’artificio illumina la notte: un po’ di festa per chi è recluso, un po’ di salti sulla sedia per chi sorveglia.

Di seguito il testo di un volantino distribuito in quei giorni ai colloqui dei familiari


 

Venezia 31-07-2015

In questi ultimi giorni i detenuti di Santa Maria Maggiore hanno iniziato una sonora protesta con cori, urla e battiture durante anche ore, facendosi ben udire dalle case vicine e catturando l’attenzione di non pochi passanti e solidali.
Se non sono ben chiare le cause per cui la protesta ha preso piede, con un’intensità e una diffusione che non si vedeva da anni, ci sembra anche superfluo cercarle, come se non bastasse stare chiusi tutto il giorno, tutti i giorni, in celle minuscole e sovraffollate, in una struttura male illuminata e fatiscente, subire pestaggi e angherie di varia natura per decidere di far valere la propria rabbia.
Le uniche notizie uscite a proposito riguardano, manco a dirlo, le “scomode” posizioni dei secondini e del personale amministrativo. Sono articoli di giornale scritti da sindacati di polizia che denunciano una situazione, per loro, allarmante: pare che solo nelle ultime due settimane vi siano stati nove casi di aggressione di detenuti verso i loro carcerieri. L’ultimo in ordine di tempo è addirittura costato una falange, staccata con un morso, a uno di questi.
Non possiamo che gioire di queste notizie, anche se la storia che raccontano davvero è, molto probabilmente, quella di una situazione giunta al limite della sopportazione per molti, dove anche il più cieco gesto di ribellione, con tutte le pesanti ritorsioni che porta verso chi lo compie, è comunque preferibile all’accettazione supina dello stato di cose.
La posizione di Santa Maria Maggiore, uno delle poche carceri italiane rimaste in centro città, rappresenta sicuramente un vantaggio per chi protesta: il forte rumore delle battiture ha resto impossibile per chiunque passasse in quei momenti non sentire le urla dei detenuti, come ad alcuni passanti di fermarsi per comunicare con i ragazzi dentro. Nel tardo pomeriggio di mercoledì le persone ferme a supportare la battitura erano più di una cinquantina. Un sostegno che ha permesso a chi è dentro di continuare con ancora più forza, come hanno testimoniato le tante urla di ringraziamento e le battiture che riprendevano ancora più forti dopo gli incoraggiamenti esterni.
Una presenza che non è mancata nemmeno nel pomeriggio di giovedì, dove con un po’ di musica e un microfono, gli sbeffeggi e gli insulti alle guardie arrivavano da entrambi i lati del muro di cinta.
Nei prossimi giorni la protesta potrebbe affievolirsi o, chissà, se adeguatamente sostenuta all’esterno, magari sfociare in qualcosa di più forte, portare degli effettivi cambiamenti nella vita quotidiana dei reclusi.
Non bisogna mai dimenticare che ogni piccolo vantaggio, ogni oggetto che è possibile tenere con sè in cella, ogni minuto di ogni ora d’aria in carcere è stato a suo tempo ottenuto con proteste e sommosse interne, spesso violentissime per ritorsioni e vendette delle guardie. Ne va dell’umanità che si riesce a conservare, l’unico antidoto reale alla galera.
Nemmeno dobbiamo minimizzare il ruolo di chi, da fuori, può aiutare la protesta: sappiamo bene che un saluto verso le finestre scalda il cuore, spinge a continuare a lottare, come un impropero a un secondino, e la sensazione che nulla possa passare lì dentro sotto silenzio, può portarlo a più miti consigli.
Da parte nostra invitiamo chiunque senta o abbia riportate notizie di ciò che sta accadendo a Santa Maria Maggiore in questi giorni a farle circolare il più possibile, a raccontare cosa è accaduto e a starsene con le orecchie tese.


Due testi per una festa

Riportiamo qui sotto due testi diffusi durante la 4a Festa di Santa Marta (o Sagra Marziana che dir si voglia).


 

Primo, dei quartieri e delle comunità che vi abitano.

Finestre chiuse, sanitari intasati dal cemento, infiltrazioni d’acqua che coinvolgono gli appartamenti adiacenti. Chi vive a Santa Marta sa bene quante case vuote puntellino il tessuto urbano del quartiere. Tante almeno quanti i fondi di bottega lasciati in preda all’abbandono: il ricordo delle attività commerciali, e delle persone che le animavano, è sempre una nota di fondo nei discorsi di chi abita questo pezzo di città.
Questa situazione, che contribuisce a costruire l’idea di un quartiere triste e disabitato, è il frutto di precise scelte economiche e politiche: la volontà di tenere sfitti gli immobili è direttamente proporzionale alle future prospettive di speculazione.
Santa Marta infatti è, all’oggi, arrivata ad un punto decisivo della propria storia: nei prossimi mesi verrà completato il tratto di tram che collegherà la Stazione Marittima a Mestre e al resto della terraferma, con tappa proprio all’entrata del quartiere, nei pressi dell’attuale imbarcadero Actv.
Questa infrastruttura sbloccherà la possibilità di nuovi investimenti in quest’area, una delle pochissime (se non l’ultima), radicalmente trasformabile all’interno della città storica, nonchè strategicamente centrale per la gestione di nuovi flussi turistici. Oltre a possedere, nelle immediate vicinanze, due delle zone non ancora edificate più grandi della città (Italgas e Magazzini frigoriferi), Santa Marta è infatti un nodo di interscambio tra trasporto acqueo e trasporto su gomma, vicinissimo tanto al terminal delle crociere quanto all’università e al resto del Veneto. E’ facile immaginare quali trasformazioni, coadiuvate da una visione di sintesi “metropolitana” del territorio, avverranno in quartiere nei prossimi anni, dopo l’arrivo del tram: costruzione del nuovo campus universitario, edificazione nell’area Italgas, nuova porta d’accesso cittadina per crocieristi. Trasformazioni studiate, ed è importante ribadirlo, non per migliorare la qualità della vita di chi oggi abita Santa Marta ma a uso e consumo dei “nuovi abitanti altamente qualificati” (così definiti dall’ormai ex prorettore all’edilizia di Ca Foscari Stocchetti, tra i più gioiosi promotori del campus all’ “americana”).
Un quartiere “smart”, dove ricercatori, studenti e creativi, comodamente connessi via tram al nuovo polo di via Torino, potranno scegliere se soggiornare negli ampi appartamenti dell’ormai ex edilizia popolare o in un nuovo dormitorio dal fascino post-industriale, progettando futuristiche architetture “green” destinate al “social housing” nell’ultima area verde rimasta improduttiva della città. Ma anche una pittoresca parentesi, per milioni di turisti, tra l’economico albergo nell’hinterland e l’imbarco sulla crociera, giusto il tempo di comprare l’ultima mascherina nel nuovo negozio di idiozie prima di godersi la vista di Venezia dal ponte della nave.
Sembra fantascienza e potrebbe benissimo esserlo se non avessimo visto, e toccato con mano, i devastanti impatti legati all’introduzione di nuove infrastrutture e poli d’attrazione nel fragilissimo equilibrio della nostra città. Se non avessimo già visto Strada Nuova diventare un albergo a cielo aperto dopo la costruzione del Ponte di Calatrava o le calli tra punta della Dogana e l’Accademia mortificarsi in distretto dell’arte nel giro di pochi anni.
Fermare questi progetti, e soprattutto le loro conseguenze a lungo termine, è tanto difficile quanto necessario. In passato abbiamo promosso incontri informativi sul progetto del tram e sugli interventi ad esso collegati. Ci siamo accorti che il dissenso era forte ma, da solo, per quanto determinato, non poteva bastare.
Abbiamo iniziato ad abitare questo quartiere provando a diffondere un’idea della vita opposta a quella che ci vorrebbero imporre, senza aspettare la sfiga di turno su cui piangere o incazzarsi. La vita che vogliamo, qui come in mille altre parti del mondo, ha al centro la qualità delle relazioni che riusciamo a costruire, il mutuo appoggio, la capacità e la voglia di mettersi in gioco, da soli o in compagnia, per rendere il presente qualcosa di più desiderabile di una forsennata corsa alla sopravvivenza ai danni del prossimo. Non esiste un solo modo per farlo, ma infiniti: c’è chi organizza una mangiata in calle invitando i vicini, chi cura un orto collettivo, chi occupa una casa sfitta e chi, semplicemente, trova il tempo per prestare attenzione a ciò che lo circonda.
Si tratta, per tutti, di iniziare da ora a prendere in mano la propria esistenza, estromettendo chi cerca di determinarlain nome del profitto.
Negli ultimi mesi abbiamo avuto un piccolo assaggio dei mezzi messi in campo dalla controparte: tentativi di staccare le utenze alle case occupate, l’interruzione dell’energia elettrica allo spazio “Bulli e Pupe”, due sgomberi di case avvenuti con la forza pubblica. Poca cosa, certo, se paragonata alla situazione delle periferie delle grandi città, ma indicazioni precisi di ciò che potrà avvenire in un futuro non troppo remoto, non appena i progetti sul quartiere acquisteranno maggiore concretezza.
Occorrerà farsi trovare pronti, continuando a fare ciò che già facciamo, ancora meglio e con più complici. Fino a che, di un tram, di una grande nave o di un campus universitario, non sapremo davvero più che farcene.


Secondo, del carcere e di chi vi abita attorno.

A poche decine di metri da qui c’è un carcere.
A chi abita a Santa Marta capita spesso di passare davanti alle mura di Santa Maria Maggiore per andare a prendere l’autobus, per attraversare la città, portando a spasso il cane. Tutti i giorni si possono sentire le parole di guardie e detenuti, assordanti silenzi, blindi che si chiudono, si possono vedere mani anonime sbucare dalle “bocche di lupo”, i cambi turno del personale, le barche che portano le forniture al mattino e il portone d’ingresso che si chiude la sera.
Convivere con quelle mura, con quelle gabbie, certo non ci piace. Tuttavia il fatto che il carcere di Venezia sia rimasto in centro storico, piuttosto che in qualche periferia deserta, da la possibilità di costruire un qualche tipo di relazione tra chi è fuori e chi è dentro, affinchè nessuno si senta nè rimanga solo.
A finire in carcere, spesso, è chi non confessa o non collabora e chi non può permettersi un bravo avvocato o di commutare la propria pena in un valore pecuniario. Poveri, tossicodipendenti, immigrati non in regola: la maggior parte della popolazione carceraria italiana è costituita da autori, o presunti tali, di reati commessi per sfuggire o cambiare la propria condizione di emarginati in uno stato di cose iniquo per definizione.
Dentro ci si trova con altre tre, quattro, sei persone in spazi talmente angusti che non tutti possono stare in piedi contemporaneamente, con un’elevata percentuale di malati (epatite B e C, scabbia, Hiv), dai lavandini esce solo acqua fredda, i servizi igienici e l’angolo cottura sono tutt’uno, il vitto è scadente e il sopravvitto (i generi di base che il detenuto può acquistare a sue spese)è costosissimo. Il periodo estivo è sempre il più difficile per i detenuti: con il caldo le condizioni di sovraffollamento raggiungono livelli assimilabili alla tortura.
In questo Santa Maria Maggior non fa eccezione: il numero dei reclusi è ampiamente superiore alla capienza prevista (si parla di oltre 300 persone a scapito dei 161 posti “regolari”) e l’amministrazione è stata più volte invitata a migliorare l’illuminazione interna della struttura e ad abolire la famigerata “liscia”, una cella punitiva priva di suppellettili in cui i detenuti venivano rinchiusi nudi.
In questo contesto per chi alza la testa, non rispettando le regole della direzione, non accondiscendendo ad ogni richiesta delle guardie, rifiutando l’auto contenzione a base di psicofarmaci, ci sono le sanzioni disciplinari (dal richiamo all’isolamento che può durare fino a 15 giorni), le perquisizioni, i pestaggi, i trasferimenti punitivi.
Di carcere, inoltre, si muore: sono più di 2000 i decessi avvenuti all’interno delle carceri italiane negli ultimi dieci anni, senza contare le persone morte in seguito ad un ricovero ospedaliero.
Le cause principali sono da ricercare nel degrado e nell’insalubrità delle strutture, nelle azioni o nelle omissioni del personale medico o di custodia, nelle decisioni del Magistrato di Sorveglianza che, negando i benefici di pena, aumenta la disperazione dei detenuti e con essa la voglia di farla finita.
Negli ultimi tempi anche a Venezia si sono verificati dei suicidi. Nel 2009 si è tolto la vita Cherib, giovane marocchino pizzicato con dell’hascish, dopo essere stato sbattuto nella “liscia” con una coperta che ha usato per impiccarsi. In seguito alla vicenda è stato aperto un procedimento penale sulla condotta delle guardie, a conoscenza delle tendenze suicide del giovane, che è ancora in corso. All’inizio di quest’anno invece ha scelto di farla finita Adrian, ragazzo di 19 anni che si è visto aprire le porte del carcere per l’esecuzione di una custodia cautelare inerente a un piccolo furto compiuto due anni prima. Privato della possibilità di scontare la custodia ai domiciliari non ha retto alla prospettiva della reclusione, uccidendosi nella doccia.
Due storie emblematiche, accadute a pochi metri dal quartiere dove abitiamo, in grado di darci la misura di quanto in carcere si soffra come di quanto quest’istituzione, più che a reinserire gli emarginati all’interno della società, assomigli più a un assurdo buco nero in cui, spesso senza nemmeno sapere il perchè, si finisce per sprofondare.
Il carcere non è la soluzione ma parte del problema perchè il problema è una società che ha bisogno del carcere per continuare ad esistere. Il problema è una società fondata sulla diseguaglianza, sull’individualismo sfrenato, sull’ansia e sulla depressione, non chi rompe le sue regole per sopravviverne.
La prospettiva non può essere che quella dell’auto organizzazione dei detenuti e della solidarietà attiva di chi è fuori, soprattutto nei momenti in cui sono gli stessi detenuti a iniziare una forma di lotta: con lo sciopero del carrello, dell’aria, dello spesino.
Liberarsi dal carcere è iniziare a fare i conti con esso, informarsi su chi ci lavora e chi ci collabora, mettendo in comune le esperienze e le strategie adottate da chi ha avuto la sventura di entrarci. Iniziare a conoscerlo per averne meno paura, coltivando sempre più relazioni di confronto sulle tematiche del controllo, della repressione, della reclusione, che si tratti di un carcere, di un C.I.E. o di un O.P.G. .