Due testi per una festa

Riportiamo qui sotto due testi diffusi durante la 4a Festa di Santa Marta (o Sagra Marziana che dir si voglia).


 

Primo, dei quartieri e delle comunità che vi abitano.

Finestre chiuse, sanitari intasati dal cemento, infiltrazioni d’acqua che coinvolgono gli appartamenti adiacenti. Chi vive a Santa Marta sa bene quante case vuote puntellino il tessuto urbano del quartiere. Tante almeno quanti i fondi di bottega lasciati in preda all’abbandono: il ricordo delle attività commerciali, e delle persone che le animavano, è sempre una nota di fondo nei discorsi di chi abita questo pezzo di città.
Questa situazione, che contribuisce a costruire l’idea di un quartiere triste e disabitato, è il frutto di precise scelte economiche e politiche: la volontà di tenere sfitti gli immobili è direttamente proporzionale alle future prospettive di speculazione.
Santa Marta infatti è, all’oggi, arrivata ad un punto decisivo della propria storia: nei prossimi mesi verrà completato il tratto di tram che collegherà la Stazione Marittima a Mestre e al resto della terraferma, con tappa proprio all’entrata del quartiere, nei pressi dell’attuale imbarcadero Actv.
Questa infrastruttura sbloccherà la possibilità di nuovi investimenti in quest’area, una delle pochissime (se non l’ultima), radicalmente trasformabile all’interno della città storica, nonchè strategicamente centrale per la gestione di nuovi flussi turistici. Oltre a possedere, nelle immediate vicinanze, due delle zone non ancora edificate più grandi della città (Italgas e Magazzini frigoriferi), Santa Marta è infatti un nodo di interscambio tra trasporto acqueo e trasporto su gomma, vicinissimo tanto al terminal delle crociere quanto all’università e al resto del Veneto. E’ facile immaginare quali trasformazioni, coadiuvate da una visione di sintesi “metropolitana” del territorio, avverranno in quartiere nei prossimi anni, dopo l’arrivo del tram: costruzione del nuovo campus universitario, edificazione nell’area Italgas, nuova porta d’accesso cittadina per crocieristi. Trasformazioni studiate, ed è importante ribadirlo, non per migliorare la qualità della vita di chi oggi abita Santa Marta ma a uso e consumo dei “nuovi abitanti altamente qualificati” (così definiti dall’ormai ex prorettore all’edilizia di Ca Foscari Stocchetti, tra i più gioiosi promotori del campus all’ “americana”).
Un quartiere “smart”, dove ricercatori, studenti e creativi, comodamente connessi via tram al nuovo polo di via Torino, potranno scegliere se soggiornare negli ampi appartamenti dell’ormai ex edilizia popolare o in un nuovo dormitorio dal fascino post-industriale, progettando futuristiche architetture “green” destinate al “social housing” nell’ultima area verde rimasta improduttiva della città. Ma anche una pittoresca parentesi, per milioni di turisti, tra l’economico albergo nell’hinterland e l’imbarco sulla crociera, giusto il tempo di comprare l’ultima mascherina nel nuovo negozio di idiozie prima di godersi la vista di Venezia dal ponte della nave.
Sembra fantascienza e potrebbe benissimo esserlo se non avessimo visto, e toccato con mano, i devastanti impatti legati all’introduzione di nuove infrastrutture e poli d’attrazione nel fragilissimo equilibrio della nostra città. Se non avessimo già visto Strada Nuova diventare un albergo a cielo aperto dopo la costruzione del Ponte di Calatrava o le calli tra punta della Dogana e l’Accademia mortificarsi in distretto dell’arte nel giro di pochi anni.
Fermare questi progetti, e soprattutto le loro conseguenze a lungo termine, è tanto difficile quanto necessario. In passato abbiamo promosso incontri informativi sul progetto del tram e sugli interventi ad esso collegati. Ci siamo accorti che il dissenso era forte ma, da solo, per quanto determinato, non poteva bastare.
Abbiamo iniziato ad abitare questo quartiere provando a diffondere un’idea della vita opposta a quella che ci vorrebbero imporre, senza aspettare la sfiga di turno su cui piangere o incazzarsi. La vita che vogliamo, qui come in mille altre parti del mondo, ha al centro la qualità delle relazioni che riusciamo a costruire, il mutuo appoggio, la capacità e la voglia di mettersi in gioco, da soli o in compagnia, per rendere il presente qualcosa di più desiderabile di una forsennata corsa alla sopravvivenza ai danni del prossimo. Non esiste un solo modo per farlo, ma infiniti: c’è chi organizza una mangiata in calle invitando i vicini, chi cura un orto collettivo, chi occupa una casa sfitta e chi, semplicemente, trova il tempo per prestare attenzione a ciò che lo circonda.
Si tratta, per tutti, di iniziare da ora a prendere in mano la propria esistenza, estromettendo chi cerca di determinarlain nome del profitto.
Negli ultimi mesi abbiamo avuto un piccolo assaggio dei mezzi messi in campo dalla controparte: tentativi di staccare le utenze alle case occupate, l’interruzione dell’energia elettrica allo spazio “Bulli e Pupe”, due sgomberi di case avvenuti con la forza pubblica. Poca cosa, certo, se paragonata alla situazione delle periferie delle grandi città, ma indicazioni precisi di ciò che potrà avvenire in un futuro non troppo remoto, non appena i progetti sul quartiere acquisteranno maggiore concretezza.
Occorrerà farsi trovare pronti, continuando a fare ciò che già facciamo, ancora meglio e con più complici. Fino a che, di un tram, di una grande nave o di un campus universitario, non sapremo davvero più che farcene.


Secondo, del carcere e di chi vi abita attorno.

A poche decine di metri da qui c’è un carcere.
A chi abita a Santa Marta capita spesso di passare davanti alle mura di Santa Maria Maggiore per andare a prendere l’autobus, per attraversare la città, portando a spasso il cane. Tutti i giorni si possono sentire le parole di guardie e detenuti, assordanti silenzi, blindi che si chiudono, si possono vedere mani anonime sbucare dalle “bocche di lupo”, i cambi turno del personale, le barche che portano le forniture al mattino e il portone d’ingresso che si chiude la sera.
Convivere con quelle mura, con quelle gabbie, certo non ci piace. Tuttavia il fatto che il carcere di Venezia sia rimasto in centro storico, piuttosto che in qualche periferia deserta, da la possibilità di costruire un qualche tipo di relazione tra chi è fuori e chi è dentro, affinchè nessuno si senta nè rimanga solo.
A finire in carcere, spesso, è chi non confessa o non collabora e chi non può permettersi un bravo avvocato o di commutare la propria pena in un valore pecuniario. Poveri, tossicodipendenti, immigrati non in regola: la maggior parte della popolazione carceraria italiana è costituita da autori, o presunti tali, di reati commessi per sfuggire o cambiare la propria condizione di emarginati in uno stato di cose iniquo per definizione.
Dentro ci si trova con altre tre, quattro, sei persone in spazi talmente angusti che non tutti possono stare in piedi contemporaneamente, con un’elevata percentuale di malati (epatite B e C, scabbia, Hiv), dai lavandini esce solo acqua fredda, i servizi igienici e l’angolo cottura sono tutt’uno, il vitto è scadente e il sopravvitto (i generi di base che il detenuto può acquistare a sue spese)è costosissimo. Il periodo estivo è sempre il più difficile per i detenuti: con il caldo le condizioni di sovraffollamento raggiungono livelli assimilabili alla tortura.
In questo Santa Maria Maggior non fa eccezione: il numero dei reclusi è ampiamente superiore alla capienza prevista (si parla di oltre 300 persone a scapito dei 161 posti “regolari”) e l’amministrazione è stata più volte invitata a migliorare l’illuminazione interna della struttura e ad abolire la famigerata “liscia”, una cella punitiva priva di suppellettili in cui i detenuti venivano rinchiusi nudi.
In questo contesto per chi alza la testa, non rispettando le regole della direzione, non accondiscendendo ad ogni richiesta delle guardie, rifiutando l’auto contenzione a base di psicofarmaci, ci sono le sanzioni disciplinari (dal richiamo all’isolamento che può durare fino a 15 giorni), le perquisizioni, i pestaggi, i trasferimenti punitivi.
Di carcere, inoltre, si muore: sono più di 2000 i decessi avvenuti all’interno delle carceri italiane negli ultimi dieci anni, senza contare le persone morte in seguito ad un ricovero ospedaliero.
Le cause principali sono da ricercare nel degrado e nell’insalubrità delle strutture, nelle azioni o nelle omissioni del personale medico o di custodia, nelle decisioni del Magistrato di Sorveglianza che, negando i benefici di pena, aumenta la disperazione dei detenuti e con essa la voglia di farla finita.
Negli ultimi tempi anche a Venezia si sono verificati dei suicidi. Nel 2009 si è tolto la vita Cherib, giovane marocchino pizzicato con dell’hascish, dopo essere stato sbattuto nella “liscia” con una coperta che ha usato per impiccarsi. In seguito alla vicenda è stato aperto un procedimento penale sulla condotta delle guardie, a conoscenza delle tendenze suicide del giovane, che è ancora in corso. All’inizio di quest’anno invece ha scelto di farla finita Adrian, ragazzo di 19 anni che si è visto aprire le porte del carcere per l’esecuzione di una custodia cautelare inerente a un piccolo furto compiuto due anni prima. Privato della possibilità di scontare la custodia ai domiciliari non ha retto alla prospettiva della reclusione, uccidendosi nella doccia.
Due storie emblematiche, accadute a pochi metri dal quartiere dove abitiamo, in grado di darci la misura di quanto in carcere si soffra come di quanto quest’istituzione, più che a reinserire gli emarginati all’interno della società, assomigli più a un assurdo buco nero in cui, spesso senza nemmeno sapere il perchè, si finisce per sprofondare.
Il carcere non è la soluzione ma parte del problema perchè il problema è una società che ha bisogno del carcere per continuare ad esistere. Il problema è una società fondata sulla diseguaglianza, sull’individualismo sfrenato, sull’ansia e sulla depressione, non chi rompe le sue regole per sopravviverne.
La prospettiva non può essere che quella dell’auto organizzazione dei detenuti e della solidarietà attiva di chi è fuori, soprattutto nei momenti in cui sono gli stessi detenuti a iniziare una forma di lotta: con lo sciopero del carrello, dell’aria, dello spesino.
Liberarsi dal carcere è iniziare a fare i conti con esso, informarsi su chi ci lavora e chi ci collabora, mettendo in comune le esperienze e le strategie adottate da chi ha avuto la sventura di entrarci. Iniziare a conoscerlo per averne meno paura, coltivando sempre più relazioni di confronto sulle tematiche del controllo, della repressione, della reclusione, che si tratti di un carcere, di un C.I.E. o di un O.P.G. .

 


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