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Altri spunti e un’udienza

Le iniziative organizzate durante i tre giorni contro la Sorveglianza Speciale a Venezia hanno voluto aprire degli spazi di discussione attorno a questa misura, ai criteri con i quali ne viene decisa l’applicazione e alle possibilità che può aprire la decisione di non sottostarvi. Particolarmente interessante è stato il confronto su quest’ultimo tema, grazie anche all’intervento di alcuni compagne e compagni che hanno affrontato, in passate occasioni, la decisione di violare dichiaratamente le misure cautelari a loro imposte.

La condivisione di esperienze di lotta concrete in merito ha fatto sì che buona parte del discorso rimanesse incentrato sugli aspetti più strettamente tecnici e pratici di questa scelta. Spunti di riflessione preziosi in quanto, ci si è accorti, riguardo alla sorveglianza manca quasi completamente una “letteratura di riferimento” in grado di fornire un quadro altrettanto concreto.

Tenendo conto delle differenze che intercorrono tra i contesti di lotta, come tra una misura cautelare e una preventiva, o tra le motivazioni che spingono qualcuno a decidere se violare o meno un’imposizione, appare difficile inserire tutte queste scelte in una stessa cornice. Auspicabile è invece mantenere un piano di dialogo costante tra chi si sta interrogando sulla questione, mettendo in comune esperienze e pratiche che, se non sul se, possono fare la differenza sul come farlo, nella maniera più efficace.

La possibilità di non sottostare a una misura apre un campo di intervento rimasto, fino ad ora, praticamente inesplorato: se ben giocata può infondere maggiore forza a una lotta, alla solidarietà verso chi ne è colpito, come alla sua personale determinazione. Sarebbe però un errore concepirla come qualcosa di replicabile a prescindere, troppe sono le variabili in gioco per poter pensare di uscirne con un “si fa così” valido per chiunque.

Poichè la scelta della violazione porta inevitabilmente all’assunzione, non solo individuale, delle sue conseguenze è indispensabile che questa parta da una riflessione sui propri limiti, sulle potenzialità ancora da esprimere e su quei margini di solidarietà che si intende allargare.

Il giorno dell’udienza ha visto una massiccia presenza di forze dell’ordine davanti al Tribunale e nei pressi del carcere, un dispositivo messo in campo fin dal giorno precedente. Mentre si svolgeva un presidio solidale nel quartiere di S.Marta, la giudice relatrice elencava nuovamente tutti gli episodi ritenuti sintomatici della pericolosità sociale del soggetto, compreso l’ultimo regalo della Digos consegnato in tutta fretta durante la pausa pranzo: lo scritto in cui il compagno dichiara di non voler sottostare all’eventuale convalida della sorveglianza. Documento che, seppur presentato fuori tempo massimo e in maniera non “convenzionale”, viene accettato in quanto “fortemente indicativo della sua personalità”.

Al momento in cui scriviamo il Tribunale non si è ancora espresso riguardo alla richiesta.

Seguiranno aggiornamenti a riguardo e sulle prossime iniziative.

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Perchè no (?)

Questo testo è stato scritto dal compagno sottoposto alla richiesta di Sorveglianza Speciale. Per continuare la mobilitazione ricordiamo il prossimo appuntamento del 20 settembre, giorno dell’udienza, dalle ore 10 a Santa Marta, Campo dei Sechi.


Lo scorso 9 giugno, pioveva ed era l’inizio di un gioioso giovedì, la polizia anticrimine di Venezia ha notificato a chi scrive la richiesta di Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza. Un nome da pessimo film-noir che designa la misura di prevenzione più gravosa prevista per chi, come nel mio caso, appartiene alla categoria di persone sospettate di “essere dedite alla commissione di reati che mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Minorenni e lsd negli acquedotti a parte, la richiesta in questione è costruita mettendo insieme una lunga serie di fatti riguardanti la mia persona dal 2008 in avanti, rilevanti o meno da un punto di vista penale, e delle considerazioni generali della Questura tese a dimostrare la mia “pericolosità sociale”, requisito fondamentale per l’applicazione di ogni misura preventiva. Un elenco di “indizi e sospetti” che, oltre a ricordarmi un certo numero di bei momenti altrimenti passati nel dimenticatoio, sono definiti “altamente sintomatici”, con piena appropriazione del linguaggio medico, di una patologia a cui la polizia si sta prodigando a trovare una cura.

Ora, che la mancata lealtà verso l’ordine costituito venga perseguitata anche tramite la costruzione di un immaginario di “devianza” non è più una novità dai tempi dell’Inquisizione ma, prerogativa squisitamente democratica spruzzata di stalinismo, la Sorveglianza fa un passo ulteriore: si propone di mettermi da parte per il mio bene, oltre che per preservare “la pacifica coesione sociale tra le parti”.

Nelle 16 pagine di morbosa e voyeuristica compilazione non è dato sapere quale tipo di coesione sociale tra le parti sarebbe da preservare, se quella tra sfruttati e sfruttatori o, ad esempio, quella tra i detenuti e i loro carcerieri o, per non andare troppo in là, quella tra i ricchi di questa città e chi è costretto ad andarsene.

Così la mia partecipazione ai cortei No Tav in Val di Susa, o a molti presidi sotto il carcere di Santa Maria Maggiore, sarebbero sintomi di pericolosità non di per sè stessi, ma in relazione all’ aver abbandonato gli studi o al non possedere un contratto di lavoro stabile. Conseguentemente, con peloso quanto insopportabile paternalismo, viene proposta una guarigione attraverso quella che è, a tutti gli effetti, una pena senza reato.

Il giudizio del Tribunale del Riesame, che si esprimerà sulla convalida della misura il prossimo 20 settembre in mancanza di dati giuridici oggettivi, non potrà quindi che avere un carattere essenzialmente psichiatrico: ad essere valutate saranno le intere condotte della mia vita, sulla base della suggestione proposta da chi, per mestiere, la spia dal buco di una serratura.

La Sorveglianza, una volta convalidata da un giudice, impedisce la frequentazione di assemblee e locali pubblici, quella delle bettole e delle osterie, obbliga il sorvegliato a stare a casa dall’alba al tramonto e, una specifica del mio e di altri casi, a non lasciare il proprio comune di residenza. Inoltre poichè la Sorveglianza vieta l’incontro con pregiudicati e destinatari di misure di prevenzione, ed essendo praticamente la totalità dei miei compagni affetti da fogli di via o avvisi orali, l’effetto (o lo scopo?) di questa misura sarebbe quello di isolarmi completamente dalle persone con cui ho scelto di vivere e lottare. Il tutto per due anni.

In mancanza di altri strumenti legali per mettermi fuori gioco, la Questura di Venezia cerca di farmi fare lo sbirro di me stesso, delegandomi il controllo delle mie abitudini e delle mie frequentazioni, sotto il costante ricatto di commettere una violazione punibile con la reclusione da 1 a 5 anni.

Un ricatto inaccettabile e un ruolo che non intendo ricoprire.

Per questi, e per molti altri motivi, voglio dire ai miei amici e ai miei compagni che, qualora il giudice dovesse confermare questa misura, non ho nessuna intenzione di sottostarvici. Portare fino in fondo questa scelta significa necessariamente assumersi le conseguenze che potrebbe comportare, non ultima la reclusione. Una prospettiva che non mi fa più paura di passare i prossimi due anni a stare attento a chi incontro per strada, lontano da tutte le cose che faccio, cercando di vivere come la polizia ha detto che dovrei. Del resto, come ci hanno dimostrato le lotte dei detenuti dell’ultimo anno, il carcere non è la fine di niente.

Nei tanti contesti di lotta che ho avuto la fortuna di attraversare ho sempre pensato che l’essenziale, ciò che rende uno slancio generoso realmente rivoluzionario, fosse quanto di noi da quei momenti non sarebbe più tornato indietro come prima. Quante ansie e barriere saremmo riusciti a lasciarci alle spalle, dischiudendo altre possibilità dove prima avremmo visto solo muri.

Più di qualcuno, prima di me, si è trovato per scelta o per necessità ad affrontare a viso aperto lo spinoso terreno della repressione cautelare e preventiva, avendo il coraggio di aprire nuove strade che restano ancora per molti versi inesplorate. Al di là dell’efficacia o meno di questo tipo di risposta, il merito è stato senz’altro quello di rivelare un nuovo campo in cui è possibile battersi, proprio lì dove sembrava più difficile (o nessuno aveva ancora pensato di andare).

Proseguire su questa strada non sarà, per forza di cose, un affare soltanto mio. Ritengo sia imprescindibile un confronto, fra compagni e non, su cosa significa continuare con ciò che si sta portando avanti nonostante le imposizioni poliziesche, e come far fronte ai rischi che comporta la loro violazione trasformandoli, per quanto possibile, in altrettante occasioni di rilancio.

Per ora, semplicemente, intendo proseguire questa discussione non temendo di incontrare i miei affetti, seduto al tavolo di qualche bettola e senza l’ansia di dove tornare a casa la sera.

Nicholas

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Oggi a Santa Maria Maggiore

Più o meno un anno fa iniziava, nel carcere di Santa Maria Maggiore, una mobilitazione auto-organizzata, proclamata come “sciopero”, che sarebbe durata il tempo di una settimana.

Oggi la quotidianità tra le mura del carcere veneziano appare decisamente cambiata. La vita dei detenuti vede concretizzate alcune piccole migliorie reali, a scapito di quell’atmosfera di complicità e di quella voglia di lottare che ha caratterizzato l’estate scorsa. In questa affermazione riportiamo l’opinione di chi, dal vivo del carcere, ha assistito a questa parabola, senza alcuna pretesa di giudizio oggettivo.

Per adeguarsi ai rilievi sollevati dall’ispezione del garante nazionale per i diritti dei detenuti, resa pubblica lo scorso 20 giugno, sappiamo che molte celle sono attualmente in fase di ristrutturazione, mentre sono stati acquistati dei tavoli da ping-pong (di cui uno per le guardie..), snellite le procedure per colloqui e telefonate e aggiunti dei canali alla televisione.

Il miglioramento più significativo riguarda però l’estensione dell’orario di apertura delle celle, prolungato per il periodo estivo fino alle ore 20.00. Senz’altro la novità più direttamente collegabile alle lotte dello scorso anno, iniziate proprio in seguito alla chiusura delle celle per motivi disciplinari.

Nel frattempo, qualche giorno addietro, è uscita la notizia che alcune guardie, intervenute pare per sedare una rissa, siano state fatte oggetto di lanci di urina e oggetti.

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Una proposta per il prossimo 16/9

Il testo che segue è una proposta di discussione, rivolto a tutti e a tutte gli interessati, per l’incontro che si terrà a Venezia il prossimo 16 settembre, in merito alle iniziative contro la richiesta di Sorveglianza Speciale ai danni di un compagno.


La richiesta di Sorveglianza Speciale formulata dalla Questura di Venezia ai danni di un compagno chiude idealmente quel cerchio di misure preventive iniziato un anno fa nella città lagunare, con l’emissione di una quarantina di fogli di via e di tre avvisi orali. Una strategia volta ad allontanare chi prende parte in una lotta dal contesto in cui vive, isolandolo dai propri legami e affetti. Questi provvedimenti spesso pesano sulla vita di chi ne è destinatario più delle eventuali condanne penali per i reati che le motivano, sempre ammesso che questi siano sostenuti e comprovati in sede processuale. 
Un discorso simile lo vediamo concretamente realizzarsi nel gran numero di misure cautelari che tante procure, quella di Torino su tutte, affibiano agli indagati di inchieste che, altrettanto spesso, finiscono con un nulla di fatto o con la caduta di buona parte dell’impianto accusatorio. Misure che risultano esse stesse essere il fine della repressione poichè, con effetto immediato, impongono restrizioni in molti casi più gravose e durature della pena.
Recentemente qualcuno, con coraggio, ha messo in dubbio l’inviolabilità di queste misure disobbedendone ai dettami, mettendo in conto l’eventualità concreta di finire in carcere o agli arresti domiciliari. Due compagni, attivi sul fronte No Tav in Val di Susa, sono attualmente detenuti alle Vallette di Torino per aver portato questa decisione fino in fondo.  
Scelte di cui potremo valutare l’efficacia nel prossimo futuro ma che, guardando all’oggi, aprono possibilità inedite nei tanti modi di affrontare la repressione. 
Ci interesserebbe aprire uno spazio di confronto attorno a questo modo di organizzarsi, consapevoli che il “se” e il “come” farlo, pur partendo da una presa di posizione individuale, possono trovare riscontro solamente in una forza comune e nella volontà di produrre un avanzamento della lotta in tal senso. Per fare questo è necessario dotarsi dei mezzi, materiali e immateriali, per non lasciare solo chi viene colpito ma, soprattutto, per far sì che questa possibilità diventi solida, efficace e alla portata di tutti e tutte.
Per iniziare a discutere di questo e di molto altro ci vediamo venerdì 16 settembre, alle ore 16 all’Ex Ospizio Occupato.
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