Questo testo vuole essere prima di tutto un racconto di ciò che è avvenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia tra i mesi di luglio e agosto. Molte delle vicende in questione sono ancora in corso, abbiamo sentito la necessità di metterle nero su bianco perché riteniamo possano essere dei punti di partenza per una discussione allargata sul carcere, sul suo funzionamento e sugli incontri che, dentro e fuori di esso, possono avere luogo.
In estate le condizioni di chi è recluso diventano ancora più difficili. Il caldo, in una situazione di sovraffollamento coatto, con spazi di movimento ridottissimi, può rendere la quotidianità insopportabile, spingere chi è dentro a gesti e azioni prima impensati. Esattamente ciò che è avvenuto nel penitenziario veneziano di recente: è di metà luglio la notizia che un ragazzo recluso, per protestare contro il proprio trasferimento in una sezione con le porte sempre chiuse, ha incendiato i materassi della cella, intossicando tre agenti.
Da questo episodio ogni piccola provocazione delle guardie contribuisce ad esasperare il clima generale: il 27 luglio un detenuto, trattenuto dai secondini in malo modo, stacca con un morso una falange a uno di questi. La rappresaglia della direzione è tempestiva e, come al solito, diretta a tutti: vengono chiusi i blindi per tutto il giorno.
Il 29 luglio, nel tardo pomeriggio, una forte battitura scuote le mura e la monotonia di Santa Maria Maggiore.
Nonostante il ricatto sempre presente dei “richiami”, un provvedimento che annulla le cospicue riduzioni di pena in caso di buona condotta, la maggior parte dei ragazzi decide di prendere parte alla protesta. Urla e battiture di piatti e pentole contro le sbarre, più un giorno intero di sciopero della fame.
I rumori vengono sentiti in tutto il circondario e attirano l’attenzione di chi vive e passa lì vicino. Una cinquantina di persone si raduna sotto il carcere, improvvisando un presidio in solidarietà. Le cause scatenanti della protesta non sono ancora chiare, ma sono ben note le condizioni disumane in cui i detenuti trascorrono le loro giornate.
“Non va bene un cazzo, ci trattano come bestie” dicono da dentro.
Si innesca un “botta e risposta” , tra chi fa casino dentro e chi fuori, che dura tutto il pomeriggio, tra gli sguardi sbigottiti delle guardie e degli sbirri accorsi a dare man forte. Questi ultimi, al passaggio dei solidali davanti all’ingresso, spauriti, si chiudono goffamente dietro la pesante porta di ferro del carcere.
La solidarietà continua anche il giorno seguente: viene organizzato un altro presidio con musica e pentole per far rumore. La risposta dentro è forte, la paura dei ricatti sbirreschi sembra già un ricordo lontano.
“Libertà, hurriya! Guardie bastarde!”. Vengono scambiati, in diversi modi, vari contatti tra detenuti e solidali: la voglia di comunicare è tanta.
Nei giorni successivi esce la notizia che la protesta è stata efficace. I blindi e le porte delle celle sono di nuovo aperte ed è possibile passeggiare liberamente tra i corridoi.
“Grazie a voi e al casino che avete fatto adesso abbiamo di nuovo le celle aperte” senza dimenticare che ogni supporto è inutile senza il coraggio di chi, da dentro, decide di ribellarsi, assumendosi le inevitabili conseguenze della propria rabbia.
“Il problema principale è la burocrazia, non permette di fare niente”, “ La direttrice ignora ogni richiesta. E’ impossibile telefonare e molto difficile ottenere i colloqui”. Ma anche “Qui dentro si respira l’integrazione, quella vera, non quella ipocrita del falso sorriso che c’è fuori” .
Le finestre dei corridoi sono, inoltre, aperte per la maggior parte del tempo. Il passaggio sotto il carcere, se prima dava solamente un senso di impotenza e frustrazione è, ora, un modo per rompere in parte l’isolamento, vedere quelle mura sempre più sottili.
”Qui in carcere non si gioca a calcio perché la direttrice non vuole” “In libreria non ci sono libri in arabo perché sono vietati”. Dentro Santa Maria Maggiore pare che ogni cosa in grado di allietare, anche per poco, le giornate sempre uguali sia vietata, o comunque sia difficilissimo accedervi.
“Resterebbe solo il calcio balilla, ma è rotto pure quello e nessuno viene ad aggiustarlo”, “ho fatto richiesta di accedere in palestra e, per fortuna!, dopo tre mesi me l’hanno accettata”.”Sto scrivendo domandine ogni giorno per parlare con educatore e psicologo e da due settimane nessuno mi sta cagando”.
Anche la sala computer dove dovrebbe venire redatto il giornalino del carcere, tramite un progetto finanziato dal Comune, pare sia considerata dalla direzione inaccessibile e, pertanto, rimane chiusa.
Il 2 agosto un presidio di qualche decina di persone racconta la protesta dei detenuti di S. Maria Maggiore alle ragazze del carcere femminile della Giudecca : dal microfono si aggiornano le detenute su quanto sta succedendo nel maschile e in altre prigioni italiane.
Il 21 agosto si è nuovamente sotto le mura, in Rio Terà dei Pensieri. Con musica, giocolieri e aria di festa si parla con i ragazzi, cercando di movimentare un po’ il pomeriggio. Dopo poco intervengono i secondini, che chiudono le finestre più rivolte all’esterno.
Provvedimento che, tuttavia, non basta a fermare la voglia dei detenuti di stare assieme, comunicare, ballare: si riesce comunque a mantenere un contatto visivo, le richieste di canzoni si sentono a fatica tra le urla di entusiasmo. Qualcuno incendia dei fogli di giornale e inizia un’altra battitura. Si viene a sapere che un detenuto è in sciopero della fame da ferragosto per chiedere il trasferimento in un’ altra struttura.
Prima di iniziare a trarre delle considerazioni dai fatti qui raccontati va premesso che, per il carcere di Venezia, le mobilitazioni e le iniziative di questo mese presentano dei lati inediti. Nel corso degli ultimi anni non è mai mancata l’attenzione verso ciò che succedeva a Santa Maria Maggiore, né ci si è mai tirati indietro quando si trattava di far sentire la rabbia per fatti particolarmente gravi accaduti. Uno su tutti il recentissimo suicidio di Adrian, un ragazzo di 19 anni, morto impiccato nella propria cella a gennaio 2015. Anche fra i detenuti i momenti di protesta non sono mai mancati: ricordiamo tutti le battiture del 2009 a seguito del “suicidio procurato” di Cherib, o la battitura per il caldo e l’invivibilità della prigione del luglio 2013. La novità sta nel fatto che, il 29 luglio e nei giorni successivi, le due facce del dispositivo carcere, il dentro e il fuori, siano entrate in un rapporto di scambio reciproco fra di loro. Uno scambio che non sarebbe stata possibile se il carcere di Venezia non si trovasse in pieno centro cittadino.
Santa Maria Maggiore è un carcere storico e di vecchia costruzione. Come tutte le carceri costruite tra otto e novecento si trova immerso nel tessuto urbano della città, a pochi passi dalla principale porta d’accesso (Piazzale Roma) e non lontano dall’università e dai quartieri più vissuti. La sua posizione, unita alla particolare conformazione urbanistica di Venezia, fa in modo che i rumori e le voci dei detenuti non rimangano inascoltate. Un aspetto prezioso, rende relativamente facile avere dei contatti con l’esterno.
Con un po’ di fantasia possiamo provare a immaginare come questa caratteristica possa tornare utile per supportare vertenze e rivendicazioni dei reclusi. Osservare chi e cosa entra ed esce, salutare un amico, conoscere orari e ritmi del sistema carcere può essere una pratica quotidiana per supportare i detenuti e per attaccare il dispositivo carcerario con maggiore efficacia.
Supportare i prigionieri nelle loro lotte è un affare di tutti. Dentro come fuori.
Il carcere, il dispositivo che rinchiude insieme agli essere umani tutte le contraddizioni che la società produce, è un luogo dove la ribellione,la lotta sono una necessità di sopravvivenza e dignità.
Non dimentichiamo che ogni concessione e ogni miglioramento delle condizioni di vita nei penitenziari è stato guadagnato grazie alle rivolte e le battaglie dei carcerati.
Combattere per una finestra o una porta aperta, per dei libri, per giocare a pallone, per un trattamento meno disumano, con l’obiettivo di “vincere” anche su una singola rivendicazione è, anche in caso di sconfitta, un modo per mettere in discussione i rapporti di sottomissione e isolamento che garantiscono il funzionamento e l’esistenza di questa stessa società, non solo delle sue galere.
Se un prigioniero ripreso, rinchiuso, minacciato, umiliato 24 ore su 24 trova il coraggio di dar battaglia ai suoi aguzzini per strappare un centimetro di libertà, la possibilità di rivoluzionare anche solo alcuni aspetti della nostra vita appare come qualcosa in più di un semplice miraggio.