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Nei quartieri, nelle case, nelle calli

11 Novembre, festa di San Martino. Nella tradizione veneziana una sorta di Halloween ante-litteram: frotte di bambini chiassosi che, di bottega in bottega, riscuotono dolci, spiccioli, piccoli regali. Una festa che ci parla di un città sommersa, che si scorge appena quando la marea si abbassa e i turisti se ne vanno.

 Seguono due righe lette in compagnia tra un brulè e i giochi di piccoli teppisti nelle calli del nostro quartiere. Per non lasciarsi infinocchiare da chi, con la pancia piena e il culo al caldo, vorrebbe fomentare guerre tra poveri. Grazie, stiamo bene anche senza di voi. 

 

NEI QUARTIERI, NELLE CASE, NELLE CALLI   

 

Abitare un quartiere (come una casa, un territorio) è diverso da abitare in un quartiere. Significa non percepirsi come totalmente altro rispetto al luogo in cui si vive, avere legami affettivi con lo spazio e le altre persone che lo abitano.

Non sempre, anzi quasi mai, questo è possibile: il nostro tempo ci impone continuamente spostamenti tra posti tanto più distanti quanto uguali tra loro, posti che spesso ci limitiamo ad attraversare per la funzione che essi ricoprono all’interno di un sistema più ampio. E’ la metropoli: la perfetta sintesi del territorio dove tutto è messo al lavoro , previsto, uguale a sé stesso.

In questo ambiente sviluppare relazioni soddisfacenti, incontrarsi, organizzarsi per cambiare l’esistente è pressoché impossibile. Quando ciò riesce è perché si sincronizzano delle rotture, delle discontinuità anomale rispetto ai flussi capitalistici di merci, persone, denaro.

In questo anche Venezia non fa eccezione: divenuta il “centro storico”di una metropoli estesa dal Lido alla cintura urbana di Mestre, gli ultimi scampoli di vita vera si danno solo lì dove le maglie dell’economia sono più labili, come gli angoli di città privi di attrazioni turistiche, o le zone più povere ai margini della cartolina.

Chi mira ad estendere il deserto anche in queste ultime isole non mercificate dove, pur con tutte le contraddizioni del caso, rimane la possibilità di immaginare qualcosa di diverso, è negli ultimi tempi passato all’attacco.

Una delle armi di cui si è dotato chi governa è la retorica del “degrado”. Una parola che sembra in grado di aggettivare qualsiasi cosa: dal senzatetto all’ubriaco, dal turista maleducato alle scritte sui muri, dallo spaccio di droga alle case occupate e via dicendo. “Degrado”, per chi governa, è tutto ciò che si pone al di fuori da una normalità già programmata, ciò che turba, anche in maniera involontaria, il regolare riprodursi dello stato di cose. Al di là delle valutazioni etiche che ognuno di noi può fare su ciò che è desiderabile e cosa no per la propria vita è importante conoscere ciò che produce questa retorica, per non finire con l’esserne complici inconsapevoli.

La retorica del degrado produce uno stato d’emergenza: la soglia di tolleranza della popolazione rispetto a certi fenomeni viene abbassata e, improvvisamente, un problema che prima non veniva percepito come tale o comunque come prioritario, è sulla bocca di tutti. A questo segue la soluzione di chi governa: sgomberi, retate, leggi e provvedimenti restrittivi della libertà di ognuno che passano senza nemmeno suscitare indignazione proprio perché giustificati dall’emergenzialità. Questo non prima di aver instaurato complicità con la popolazione: ed ecco sorgere comitati contro il degrado buoni per  i cittadinisti come per il fascista di turno, associazioni per tenere la città “pulita”, progetti per incoraggiare la delazione alle forze dell’ordine di qualsiasi condotta tramite infami vaganti travestiti, nemmeno troppo bene, da residenti indignati.

Tutto questo, naturalmente, al servizio dei soliti affaristi e speculatori che, non appena la guerra fra poveri consente di fare “piazza pulita”, fanno passare indisturbati deliranti disegni di riqualificazione, progetti di gestione di servizi pubblici di cui nessuno sentirebbe la mancanza, privatizzazioni di immobili, ammazzando così sul nascere, come effetto collaterale, ogni possibilità di appropriazione diretta e di autogestione reale.

E’ il caso degli ultimi cortei anti-degrado che hanno attraversato Mestre, del blitz di Forza Nuova alla sede dell’Ater, ma anche della campagna veneziana contro i graffiti, come della riqualificazione a suon di demolizioni del rione Vaschette, a Marghera, delle speculazioni al Lido nell’area dell’ex Ospedale e di quelle che, a breve, investiranno Santa Marta.

In questa guerra alla vita che si consumerà, nei tempi a venire, in maniera sempre più cruenta la nostra posizione deve essere necessariamente chiara: rifiutiamo in blocco ogni retorica sul degrado, venga essa da destra o da sinistra, preferendo assumerci le contraddizioni di un presente non ancora del tutto anestetizzato.

Siamo, senza se e senza ma, dalla parte di chi non aspetta tavoli di discussione o progetti partecipativi per decidere cosa fare del posto in cui abita, come di chi non delega alla polizia, o all’archistar del momento, la soluzione dei propri problemi di vicinato.

In modo speciale, siamo con chi, preso atto della situazione, ha iniziato ad organizzarsi.

Veniteci a trovare, sapete dove trovarci!     


I/le Occupanti dell’Ex Ospizio Contarini

 

festa di S.martino in quartiere 11.11.2014

  festa di S.martino in quartiere
11.11.2014

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Spazi pubblici contemporanei

Pubblichiamo qui un testo scritto a partire da alcune riflessioni sugli spazi pubblici contemporanei, letto e commentato durante il dibattito seguito alla proiezione di “Vite al centro” .

Il testo è scaricabile anche in .odt dal link qui sotto.

spazi pubblici contemporanei


 

SPAZI PUBBLICI DI LARGO CONSUMO NELLA CITTA’ CONTEMPORANEA

Gli spazi pubblici sono per la loro stessa natura spazi politici e culturali fondamentali rispetto ai processi di formazione delle identità sociali collettive: questo perchè stare fisicamente assieme ad altre persone in un ambiente significa inevitabilmente avviare dei processi di confronto collettivo, il cui esito è l’identificazione dei “simili”, ovvero delle persone con cui condividiamo delle attitudini, e quindi la costituzione di collettività, per le quali tali spazi si trasformano in “luoghi”, nel senso sociale-antropologico del termine: ad essi viene attribuito un carattere, una personalità che li rende unici e territorializzati, ovvero portatori di un senso collegato all’ambiente in cui si trovano e alle persone che lo abitano.
Nella società contemporanea si stabiliscono legami collettivi temporanei attorno agli individui, agli oggetti e alle immagini che appartengono alla cultura del consumo e dello spettacolo, piuttosto che ai grandi temi della religione, della politica e del lavoro. Le relazioni sociali non discorsive, figurali, digitali, estetizzate, hanno ormai completamente sostituito la parola e il razionalismo. Vige la comunicazione primaria, basata sui desideri, le emozioni, gli istinti primari. Ciò che ne deriva è una forte frammentazione culturale formata da piccoli gruppi con identità dinamiche, fragili: consumatori che vogliono e ottengono spazi usa e getta.
Lo spazio della socializzazione per eccellenza in queste conurbazioni estese contemporanee è quello dei centri commerciali, dei parchi divertimenti, dei waterfront commerciali, degli shopping mall. Una motivazione economico-funzionalista (comodità di parcheggio, ampia scelta di merci, costi più bassi) non è sufficiente a spiegare il successo di questi centri prevalentemente extra-urbani.
Per capire la fortuna di questi spazi è importante metterli in relazione col sistema urbanistico in cui si inseriscono. L’attuale assetto del sistema urbano del triveneto è caratterizzato da un iperestensione territoriale delle agglomerazioni (insediative, economiche e sociali), associata ad un fenomeno di ipermobilità che fa leva sull’uso dei veicoli privati e su una rete infrastrutturale estremamente articolata e differenziata; la città è policentrica, caratterizzata da uno stravolgimento della tradizionale gerarchia centro-periferia. Punto forte è quindi il rapporto diretto con la rete infrastrutturale automobilistica, che diventa sempre più l’elemento di attrazione e formazione di fenomeni agglomerativi in generale. A volte la costruzione di un centro commerciale è l’elemento propulsore della formazione di cittadelle periferiche terziarie, caratterizzate dall’affiancamento di spazi ospitanti vari servizi e funzioni (commercio specializzato, attività culturali (multisala) divertimento (discoteche) alberghi ecc. Ciò avviene attraverso una semplice giustapposizione di edifici e funzioni, senza relazione col contesto urbano: l’esterno è parcheggio. La tendenza è quella di assumere sempre più una dimensione globale, policentrica e scissa dal contesto fisico e sociale a cui questi spazi appartengono.
Innanzitutto vale la pena spendere due parole sulle caratteristiche fisiche di questi spazi: architetture introverse, ma con ingressi grandi e ben visibili (differentemente dalle uscite). Le grandi dimensioni dell’involucro li rendono riconoscibili anche da lontano nonché fortemente dominanti sul paesaggio; l’assenza di relazione tra interno ed esterno (la mancanza di aperture viene sopperita dalla presenza di potenti sistemi di circolazione dell’aria) toglie la percezione dello scorrere del tempo (e delle stagioni): quantità e qualità della luce nonché temperatura sono costanti al suo interno durante tutta la giornata come durante tutto l’anno. La presenza di elementi naturali come piante e acqua serve proprio come simulacro dell’ambiente naturale esterno e permette anzi di indirizzare la percezione delle stagioni in base alle strategie di mercato. Quello del centro commerciale è un ambiente altamente estetizzato e coinvolgente dal punto di vista visivo: illuminazioni spettacolari, vetrine accattivanti che propongono la decontestualizzazione delle merci riproposte in chiave scenografica e interni lussuosi. Il consumatore è però coinvolto anche dal punto di vista uditivo e olfattivo: frequenti la profumazione dell’aria attraverso gli impianti e la presenza costante di musica o jingle pubblicitari come sottofondo. In quest’ottica di estetizzazione anche tutto ciò che attiene alla produzione o al lavoro (magazzini, cucine, uffici ecc.) è nascosto, celato come un vero e proprio backstage con tanto di entrata differenziata e accesso riservato agli addetti ai lavori. Altra strategia di vendita applicata alla progettazione è la collocazione differenziata dei negozi: ai piani alti e in ombra i negozi ricercati e al piano terra e in luce i negozi più economici, tutto al fine di naturalizzare le differenze di potere d’acquisto; anche la decontestualizzazione delle merci in esposizione è una strategia che serve ad allontanare nel fruitore l’idea della vendita e dell’interesse economico, provocando paradossalmente al contempo una maggior propensione allo shopping.
Tuttavia la caratteristica e tecnica commerciale più significativa di questi spazi è l’utilizzo di riferimenti simbolici che rimandano all’immaginario collettivo. In particolare la simulazione di elementi pre-industriali ripropone gli ambienti tipici della città tradizionale estetizzati (e anestetizzati), rifacendosi a quell’immaginario nostalgico che idealizza l’età preindustriale collegata ad una sensazione di protezione e armonia, in cui si prediligono la passeggiata protetta, la dimensione controllabile a misura d’uomo, la naturalità.
Non dimentichiamo infine che stiamo parlando di spazi privati, nonostante vogliano riproporre ambienti pubblici. Persino lo spazio automobilistico, prerogativa necessaria al raggiungimento del centro commerciale, è un’estensione dello spazio privato dell’abitazione. Questi centri sono promossi da grandi gruppi economico-finanziari che operano a scala globale e che mirano alla formazione di un reticolo globale di scambio. Il processo di privatizzazione arriva a influenzare spazi e tempi di questi luoghi, in cui sono presenti dispositivi di controllo (telecamere e vigilantes) e regolamenti di comportamento interno specifici.
Per tutti questi motivi questi luoghi diventano quindi simulacri della realtà, ricreando nel fruitore uno stato d’animo favorevole ai processi di consumo. Parallela a questa strategia ma molto simile per certi aspetti è il rimando al futuro e alla modernità tramite l’utilizzo e l’esibizione delle più recenti tecnologie (maxi schermi, spettacoli luminosi).
La socialità tipica di questi spazi si rifà a contatti effimeri, mutevoli, provvisori ed empatici, basati su un presente continuo e idealizzato, sulla comunicazione tattile e sull’identificazione con i simboli della cultura consumistica. Le motivazioni che ci spingono a frequentare gli spazi del consumo di massa spesso non sono dettate da una reale necessità , bensì da un generico desiderio di distrazione, di straordinarietà. Questi contenitori di relazioni, in cui affluiscono gruppi già costituiti di persone (famiglie, piccoli gruppi di amici, coppie) che non interagiscono tra loro, costituiscono gli ambienti adatti alle forme di socialità effimere e provvisorie tipiche della cultura del consumo. Si tratta pur sempre di luoghi in cui si provano ed esprimono emozioni, ma le identificazioni collettive sono temporanee e prive di basi solide. Lo spazio pubblico diventa così esso stesso una merce, da consumare velocemente.
Allo stesso tempo si tratta di spazi escludenti, sia perchè non sono raggiungibili da chi sia sprovvisto di un’automobile, sia per gli individui singoli, in quanto risultano improvvisamente angoscianti se vissuti singolarmente, mostrandosi in tutta la loro pochezza. Risultato: frammentazione politico-culturale, esclusione sociale e crisi delle identità locali.
Si tratta di enclaves protette e sorvegliate che raccolgono segmenti sociali omogenei (i consumatori) ma non interagenti tra loro. D’altronde la volontà generatrice non è quella di creare interazione e ibridazione sociale, ma di procurare dei simulacri di socialità caratterizzati da momentanee interruzioni nella solitudine dei consumatore; ciò che manca non è tanto quindi la convivialità, quanto l’assenza di complessità, diversità sociale, interazione.

Questo non significa che i centri urbani tradizionali non vengono più frequentati: essi si sono adeguati ad un uso turistico che fa leva sul concetto di centro storico come simbolo di identità urbana, museificata ed estetizzata per diventare simulacro di sé stessa. Come nell’800 i boulevards erano il teatro della nuova borghesia che si riconosceva nell’attenersi a precise regole di comportamento (tipologia di vestiti, ora della passeggiata, capacità d’acquisto). Non molto differentemente oggi, gli spazi pubblici di largo consumo ricreano e propongono la situazione della passeggiata in centro davanti alle vetrine, che nonostante la sua pochezza viene vissuta come un’esperienza comunicativa (basata sull’osservare ed essere osservati, e quindi sul continuo contatto visivo con la folla che scorre), creando unità temporanee tra i presenti, proponendo spazi del profitto e dei rapporti di vendita come spazi della socialità in cui utilizzare il proprio tempo libero.
Un percorso che può essere quello interno di un centro commerciale come quello esterno delle strade illuminate a giorno di un centro storico: anche qui infatti la strategia adottata è quella della spettacolarizzazione dello spazio, museificato e riconvertito ad uso commerciale per i flussi turistici, a discapito naturalmente di un restringimento di spazi pubblici tradizionali e servizi per quei residenti che ancora permangono. Attitudini o tradizioni locali vengono enfatizzate, snaturate o addirittura reinventate, tutto al fine di convertirle in termini commerciali: lo spazio pubblico funziona allora come fattore di innalzamento del valore simbolico (e quindi economico) del bene o del servizio venduto.


Questa casa non sarà un albergo!

Occupato, nella mattinata di oggi 4 novembre, l’ex Ospizio Contarini in Fondamenta delle Terese, a Santa Marta. L’edificio, vuoto da anni e messo all’asta dall’Istituto Ricovero ed Educazione, proprietario dell’immobile, da oggi è diventato una casa e un luogo d’incontro. Con buona pace di chi ci vedeva già l’ennesimo alberghetto nella Venezia insolita e nascosta. Da oggi siamo aperti, veniteci a trovare!


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Non vogliamo dormire!

Un locale che chiude, l’ennesimo in una città sempre più ostile e spettrale. La risposta: tornare in piazza a fare festa, organizzare da soli le proprie serata, i propri spazi.

Questo testo è stato distribuito durante il botellon, convocato a pochi giorni dalla chiusura dell’ “Osteria da Filo” in Campo San Giacomo da l’Orio.
Articolo su la Nuova

 


Diciamolo senza mezzi termini: la chiusura, per ordine del tribunale, dell’ Osteria da Filo (la Poppa) rappresenta l’ennesimo colpo messo a segno ai danni di tutti coloro che, nonostante la continua chiusura di servizi e spazi di aggregazione, si ostinano a vivere Venezia e le sue calli non da semplici consumatori.

Senza entrare nel merito del provvedimento giudiziario( spetterà ai gestori del locale farsi valere anche in quella sede) è da sottolineare come questa disposizione, più che all’osteria in sè, sia rivolta alla sua clientela e, più in generale, a una fascia di popolazione giovanile-studentesca che fatica a trovare una collocazione normalizzata.

Sembra infatti che, in questa città, il semplice incontrarsi per strada, scambiare due chiacchiere, bere una birra costituisca di per sè una condotta vergognosa e criminale, tanto da far finire sotto sequestro e/o sorveglianza speciale i luoghi in cui ciò avviene.

Ma cos’avrà mai di pericoloso tutta questa misteriosa circolazione di corpi,parole, pensieri?

Presto detto: il fatto di essere un ostacolo alla completa mercificazione della zona.

Campo San Giacomo, San Stae, Rio Marin ma nel complesso il Sestiere di S.Croce, stanno vivendo, in linea con ciò che accade nel resto di Venezia, una trasformazione da aree residenziali, prima considerate “degradate”a distretto atto a ospitare grandi flussi turistici. Per rendersene conto basta fermarsi ad osservare le evidenze: negli ultimi anni tre palazzi storici sono stati destinatia diventare hotel di lusso (Palazzo Pemma, Ca’ Bacchin delle Palme,Ca’ Tron, solo questo “salvato” grazie all’azione diretta di studenti e abitanti), un negozio di paccottiglia turistica ha aperto, l’ultima macelleria del sestiere sta per chiudere per far posto all‘ennesimo supermercato, due “compro-oro” si sono insediati nel raggio di poche centinaia di metri.

Verrebbe da chiedersi dov’erano quei residentidi San Giacomo così attenti al bene del proprio quartiere,mentre tutto ciò avveniva in tempi rapidissimi e in maniera irreversibile. Probabilmente a dormire, beati nel silenzio funebre di una città in agonia.

Occorre, a questo punto, prendere coscienza del ruolo che si riveste, in una città come Venezia, anche semplicemente scegliendo di trascorrere una serata tra le sue vie, lontani dalle discoteche della terraferma e da quel ghetto per studenti che hanno fatto diventare Santa Margherita. Le strade di una città tanto più sono vissute tanto meno risultano mercificabili.Vivere queste strade significa impedire che ciò avvenga, rendendo le nostre relazioni una spina nel fianco per affaristi e speculatori.

Un’intesa con i residenti è senz’altro auspicabile,ma è intollerabile che l’unico scambio tra vecchi e nuovi abitanti somigli al rapporto tra un guardia-sala e i fruitori del museo.

 

Salvare la città è anche ri-conoscersi nelle sue strade, nei suoi campi, nei quartieri.

 

 

 

                                                                                                    Quelli che non vogliono dormire.