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Fragile il vetro della clessidra

Ieri, 3 novembre, un corteo antimilitarista, dopo diversi momenti di scontro con la polizia, è riuscito ad entrare nel poligono di Capo Teulada, in Sardegna, interrompendo di fatto la Trident Juncture 2015, la più imponente esercitazione NATO sul suolo europeo dal 1989 a oggi.

Pubblichiamo qui sotto un contributo scritto da diversi compagni e compagne a Cagliari lo scorso ottobre, al termine del campeggio antimilitarista. Una riflessione sulla guerra e sulla militarizzazione dei territori e delle frontiere. Buona lettura.


 

FRAGILE IL VETRO DELLA CLESSIDRA
Siamo nemici della guerra. Come tutti vediamo i missili, i bombardamenti degli Stati, le stragi della cronaca, la realtà della guerra di tutti i giorni.
Vediamo che reale è la necessità della fuga dalla propria casa, dai propri amici, dai propri amori.
Vediamo vite come granelli di sabbia, chiuse in un sistema che torna ad uccidere ogni giorno, ma di cui intravediamo la fragilità.
Reale è la strada impercorribile di chi sogna ogni giorno la possibilità di assaporare la vita, reali sono le frontiere, le divise militari in ogni dove, le reclusioni, le espulsioni, il fiato pesante e onnipresente delle polizie e degli Stati. Reale è la nostra voglia di affrontare questo nemico.
L’Europa è stretta fra le sue frontiere. Dal Medio Oriente e dall’Africa migliaia di persone si accalcano sui confini della fortezza Europa, che fatica a tenerle fuori. Militari, campi di prigionia e respingimenti in mare non bastano a fermare chi fugge dalla guerra. Gli Stati europei si organizzano sospendendo Schengen e predisponendo piani per la ripartizione dei migranti in Europa.
Anche la NATO non perde tempo, a metà ottobre è iniziata Trident Jucture 2015, la più grande esercitazione dal 2002, per preparare il prossimo imminente intervento bellico. Tra bombe e missili, non manca il tentativo di rendere il tutto più digeribile,coinvolgendo nelle attività militari alcune organizzazioni non governative. Laddove il braccio armato ha mostrato i suoi limiti con “l’intervento umanitario”, soprattutto nel mantenimento dell’occupazione, eccolo avvalersi oggi della collaborazione civile.
Chi riesce, per fortuna o audacia, a sfuggire dall’occupazione militare, non può coltivare a lungo l’illusione di essersi allontanato dalla guerra, trovandosi le frontiere dell’Europa sbarrate e presidiate dagli stessi militari e dallo stesso filo spinato che si è appena lasciato alle spalle.
La guerra in casa
Abbiamo scelto come esempi e occasioni di analisi quattro fra i luoghi in cui, in questi mesi, la realtà della guerra di tutti i giorni e la nostra voglia di combatterla si sono concretizzati.
La Sardegna, il territorio più militarizzato d’Italia, è il giardino di casa degli eserciti di mezza Europa. Qui si preparano gli interventi nei teatri di guerra, qui la guerra non sempre si può definire simulata. In ottobre è scattata Trident Juncture 2015: migliaia fra soldati, mezzi corazzati, aerei e navi graviteranno intorno all’isola, bombardandola, in particolare nella zona più a sud, il poligono di Teulada. Quanto accaduto per TJ2015 è molto interessante da un punto di vista strategico e di possibile rilancio delle lotte antimilitariste, nonché per le connessioni che emergono tra l’isola e il resto d’Europa, sia per quanto riguarda le vicende militari, sia per chi le vuole attaccare.
In giugno, a seguito delle mobilitazioni contro la STAREX (un’esercitazione aerea di AMI e LuftWaffe), i vertici militari hanno fatto sapere che l’aeroporto di Decimomannu non sarebbe più stato coinvolto in TJ2015 perché “non sussistevano le condizioni di sufficiente tranquillità per svolgere attività di quella portata”, e sarebbe stato sostituito nelle gerarchie da quello di Trapani. Di Teulada, invece, la NATO non ha potuto fare a meno – probabilmente per la sua unicità nel mar Mediterraneo –, lasciando intendere un maggior investimento nell’apparato di sicurezza, e iniziando con largo anticipo a reprimere e minacciare chi stava pensando a quelle giornate come ad un
obiettivo.
Le lotte portate avanti negli ultimi dodici mesi, hanno fatto intuire quali possano essere le pratiche per disturbare concretamente la preparazione delle guerre, così come quali e quanti siano i collegamenti tra la Sardegna e il resto d’Italia, e tra la Sardegna e le guerre nel mondo, rendendo essenziale una riflessione sull’apertura e la diffusione della lotta.
Lampedusa, il lembo di territorio italico più a sud, più a sud di Malta, molto più a sud di Tunisi, praticamente un pezzo d’Europa sottratto all’Africa. Venti chilometri quadrati che negli ultimi anni sono diventati il principale approdo delle rotte migratorie dall’Africa verso nord. Tristemente nota per essere testimone delle stragi verificatesi nel canale di Sicilia, come di quelle avvenute sulle sue coste (su tutte quella del 3 ottobre 2013), Lampedusa è anche un interessante prototipo di costruzione delle nuove frontiere. Dotata di un CIE, ormai già trasformato in hot spot, l’isoletta è per metà militarizzata, vi sono sei radar costieri ed una presenza continua di piccoli o medi contingenti militari. Per gli abitanti dell’isola, la scelta dello Stato italiano di fare di Lampedusa il primo e più avanzato avamposto a difesa dell’Europa, è stata un’imposizione tremenda e senza via di scampo. Per i migranti, una trappola, mortale per alcuni, insuperabile per altri: senza identificazione dall’isola non te ne vai, facendoti identificare rischi il CIE, la galera o il rimpatrio. Lontana da quasi tutto, con una popolazione poco numerosa, seppur combattiva, è uno dei luoghi in cui lo Stato italiano continua la sperimentazione a tutti i livelli della “gestione” dei flussi migratori: a volte decide di far morire centinaia di persone in mare, a volte le “accoglie”, a volte ancora preferisce non far sapere niente a nessuno. Gli intrecci tra le due isole sono assai istruttivi: nel 2011 una serie di radar costieri non venne installata in Sardegna a causa dell’opposizione popolare e poco dopo finirono all’interno della zona militare di Lampedusa. Sempre nel 2011, durante la “primavera araba”, arrivarono a Lampedusa centinaia di tunisini in fuga, 800 dei quali furono trasportati in Sardegna e rinchiusi in vecchie caserme dell’aeronautica militare.
La frontiera è la fine di uno Stato e l’inizio di un altro. In questi ultimi mesi, il comune di Ventimiglia è passato sulla bocca di tutti. Con poco più di 20.000 abitanti, si trova proprio sul confine tra l’Italia e la Francia. La posizione geografica, alla base delle Alpi, ne fa uno dei passaggi più logici e apparentemente facili per chi vuole attraversare la frontiera. Dei tanti che ci provano qualcuno ci riesce, ma Gendarmerie e Polizia sono alla continua ricerca di clandestini. La Francia vorrebbe rispedire quanti più migranti in Italia, utilizzando qualsiasi prova di un passaggio nella penisola. Nel mese di giugno, in occasione della sospensione del trattato di Schengen, l’accalcarsi dei migranti sulla frontiera ha dato vita ad un presidio permanente, rimasto per mesi l’unico spazio dove chi era senza documento ritrovava un po’ di dignità.
Come tutti i luoghi dove le contraddizioni emergono, dove ciò che è vietato sembra diventare possibile, dove le persone si incontrano e organizzano, la controparte si presenta puntuale. Ecco quindi materializzarsi sempre più arrogante la presenza militare, con la solita struttura di supporto e repressione: la Croce Rossa, i centri di raccolta, i luoghi di prigionia temporanea.
Un’altra frontiera che collega l’Italia con il resto d’Europa è quella del Brennero. Centinaia sono i migranti che, in un modo o nell’altro, cercano di oltrepassare le Alpi. I treni che partono da Verona sono spesso i mezzi più utilizzati da chi non possiede un documento. Le polizie italiana, austriaca e tedesca si sono date da fare per qualche mese nell’identificazione, principalmente a bordo dei treni della compagnia austriaca OBB, distinguendo spudoratamente i controlli in base al colore della pelle. Nelle stazioni ferroviarie di Verona, di Bolzano e del Brennero la polizia è presente in forze.
Chi non riesce ad evitare i controlli viene accompagnato in appositi dormitori o in strade deserte, con la menzogna di essere arrivato in Germania, molto spesso in mezzo a null’altro se non la neve alpina. Ciò nonostante, la polizia a volte sembra non voler vedere il passaggio, per evitare un’esagerata concentrazione sul lato italiano della frontiera. Non è solo lo Stato a presentarsi puntuale all’arrivo di un viaggio infernale, sono varie le organizzazioni non governative che semplificano il lavoro di identificazione. I centri di raccolta sono in parte già pronti, in parte in
costruzione, sparpagliati sul territorio trentino e alto-atesino, e da un momento all’altro potrebbe concretizzarsi una chiusura totale delle frontiere.
Guardare nel ventre della bestia
La guerra sembra essere sempre così lontana, irraggiungibile, inattaccabile, immensa.
Guardare ai suoi orizzonti lascia spazio ad un grande senso di impotenza, ma a volte, raccogliendo la lente di ingrandimento, si riescono ad individuare delle fessure, delle brecce sensibili al tremare di qualche turbolenza, dove l’attacco torna ad essere una possibilità concreta. Così ci si accorge che diventare il granello di sabbia che inceppa la macchina può essere qualcosa di reale. La struttura della macchina bellica è attaccabile, si alimenta nelle università, nei luoghi di sperimentazione dell’intervento, nelle vite dei militari, nelle strade delle nostre città. È fatta anche di uomini e donne che vivono vicino a noi.
La guerra esiste da sempre. Storicamente era finalizzata a sottrarre le scorte alimentari ai nemici, per accaparrarsi le zone strategiche o più fertili e rigogliose, l’avvento del capitalismo e della società di massa ha cambiato tutto.
Una società basata sulla proprietà privata, sullo sfruttamento e sul consumo cerca e trova nella guerra linfa vitale. Nascono così le guerre imperialiste, volte alla conquista delle risorse più importanti del pianeta e allo sfruttamento dei popoli, e nasce così un nuovo sistema di guerra, che al giorno d’oggi ha preso la forma della guerra permanente.
Meno visibile, meno impressionante, ma non molto diversa nei risultati e nel numero di morti.
Da anni l’Italia ne è protagonista: migliaia di soldati continuamente impiegati in vari teatri bellici, senza nessuna vera e propria dichiarazione di guerra, ma non senza bombardamenti, stragi e massacri. Ciò è anche funzionale a giustificare ingenti investimenti nell’industria bellica, nonché a creare ciò di cui il capitalismo contemporaneo ha bisogno: nuovi schiavi.
Se fin dal Cinquecento gli Stati europei non si sono fatti problemi a sfruttare le popolazioni di mezzo mondo per trarne enormi profitti, oggi non devono nemmeno andare a cercare gli schiavi di cui hanno bisogno, arrivano direttamente in Europa da soli.
Spinti dalla miseria, dalle malattie e specialmente dalle guerre, migliaia di uomini e donne abbandonano la loro terra natia per cercare fortuna in Europa.
Per quelli che riescono ad arrivare ci sono confini da superare e campi di prigionia dai quali scappare, chi riesce ad evitarli o riesce ad uscirne ha come prospettiva una vita da fantasma senza documenti, obbligato a sottomettersi e ad accettare lavori e stipendi da schiavo. Questo non avviene per caso, è tutto ben studiato perché necessario.
Tutto ciò accade con la complicità silenziosa di chi non sa più accorgersi e neanche si chiede se lo Stato italiano sia in guerra, se quello dietro casa sia un centro di accoglienza o un lager. Lo Stato che ha violentato le parole con la stessa arroganza con cui ha bombardato i territori in sedicenti missioni di pace e guerre umanitarie, ha fatto del migrante il nemico numero uno, di cui avere paura e contro cui varare pacchetti sicurezza degni del ventennio, riportando i militari nelle strade e creando campi di prigionia a discriminazione etnica.
In questo clima non è strano che nessuno si stupisca della sospensione del trattato di Schengen, o che la NATO, con l’operazione TJ2015, stia dispiegando in Italia migliaia di uomini e mezzi per una possibile imminente guerra sul fronte orientale, o, ancora, che in mezzo al Mediterraneo ci sia un’isoletta utilizzata per sperimentare la gestione militare di emergenze civili. Non risulta strano che per preparare la guerra ci si avvalga di ONG e della Croce Rossa Italiana, per dare un volto umano al proprio operato.
L’evoluzione della strategia militare in guerra interna ed esterna prevede sempre più la collaborazione con componenti civili, umanitarie e non. Queste, da una parte, svolgono quei compiti che i militari non sono addestrati ad eseguire, in particolar modo nei momenti immediatamente successivi alle aggressioni e nelle operazioni di occupazione; dall’altra rendono più umano l’intervento, permettendo ai guerrafondai di usare i camici dei medici della CRI per pulirsi le mani sporche di sangue.
Questo mutamento ha notevolmente ampliato il terreno di sovrapposizione tra ambito civile e ambito militare, facilitando ulteriormente l’infiltrazione della militarizzazione nel tessuto sociale. Si può così dire che, a livello territoriale, la militarizzazione sia diventata un’enorme ragnatela, con diramazioni più difficili da vedere, ma non per questo immuni dall’attacco. Anzi, dal momento che i suoi fili arrivano ovunque, ovunque possono essere colpiti.
E’ difficile nascondere ad un occhio attento il via vai di migliaia di soldati lungo la penisola, i nomi delle ditte che costruiscono armi, caserme o prigioni, che posizionano il filo spinato lungo le frontiere, delle associazioni “umanitarie” che avallano le guerre. Anche se la dimensione e la forza di questo avversario sembrano non lasciar scampo a chi gli si vuole opporre, è proprio nella sua enormità che si possono intravedere delle crepe vulnerabili. La distribuzione su tutto il territorio di chi collabora, finanzia o è finanziato dal mondo militare lascia ampio spazio alla fantasia, ci permette di muoverci o colpire in anticipo, da vicino o da lontano.
La connessione che troviamo tra un’esercitazione militare in Sardegna e il filo spinato di Ventimiglia ci permette di vedere dietro quelle reti e oltre quel filo le stesse facce. Ci permette di cogliere come un’unica lotta quelli che potrebbero sembrare attacchi a due momenti apparentemente distinti del fenomeno bellico: il prima, con le esercitazioni e gli investimenti nell’industria bellica, e il dopo, con il tentativo di gestire “l’eccedenza umana” in fuga dalla distruzione.
L’intima connessione tra il prima e il dopo, due bulbi della stessa clessidra, richiede non solo una presa di coscienza, ma anche la sua espressione sul piano dell’attacco.
È proprio quest’esigenza che ci ha portato a scrivere questo testo.
Di fronte a fenomeni dalla portata epocale, tanto da sembrarci oltre le nostre possibilità di intervento, sentiamo i limiti di un approccio unicamente localistico. Vorremmo inscrivere la nostra prospettiva di attacco all’interno di un quadro più ampio, che ci permetta di percepire e valutare la portata e l’efficacia delle azioni che riescono ad inceppare, seppur per poco, il funzionamento della macchina bellica.
Sentire nostra una lotta che ovunque possa intensificarsi e darsi il coraggio necessario per osare passi decisi, dai territori che viviamo fino ovunque esista l’audacia che determina chi ha voglia di lottare. Vedere lo stesso nemico in una base militare, una frontiera, un CIE, un’organizzazione che con questi collabora. Riconoscere negli occhi di chi vi si oppone lo stesso sguardo dei compagni con cui quotidianamente ci confrontiamo e agiamo.
Questo cerchiamo, per darci slancio e prospettiva.
Ma non solo.
Vorremmo essere al fianco di chi decide di superare le frontiere, violando il legale perché assurdo e sbagliato, e magari insieme trasformare la necessità in desiderio. Crediamo che la ricerca della complicità, lì dove la necessità è più vicina al desiderio, possa trasformare chi si trova ad essere conseguenza della guerra, funzionale alla riproduzione di un sistema di sfruttamento, in presenza indesiderata. La causa primaria della fuga dall’occupazione militare è la necessità, ma è proprio in chi ha conosciuto il nostro stesso nemico più da vicino che cerchiamo l’esperienza del capovolgimento. Cerchiamo nella necessità il salto che ci permetterà di lottare insieme. Cerchiamo
il desiderio di vedere una frontiera abbattuta, un documento bruciato, una macchina della polizia capovolta.
Oggi il mondo capitalista può raggiungere qualsiasi spazio, può riempire le decisioni di statistica, ma non può prevedere i balzi incontenibili della rabbia. Se il ritorno economico “materiale”della guerra non è mai d’avanzo, quello “umano” deve essere invece contenuto e gestito, proprio per evitare che diventi incontrollabile. Questi sono i piani del capitale.
I suoi disastri hanno conseguenze decennali e i flussi migratori ne sono un aspetto.
Superare le frontiere è un traguardo senza dubbio necessario, ma la loro esistenza divide in zone meglio gestibili il mondo che vogliamo dimenticare. È così per chi scappa dalla guerra come per chi decide di lottare.
La possibilità di incontrarci è proprio lì dove sono accesi i fuochi che potrebbero diventare incendio, proprio lì dove rifiutiamo la legalità e impariamo che lottare non ha niente da spartire con i discorsi di certi “paladini dell’accoglienza”.
Vogliamo passare all’azione prima che sia troppo tardi.
Vogliamo continuare a forzare queste crepe, affinché la clessidra si rompa del tutto.
Non possiamo fare altro che continuare a cercare i nostri complici.
Alcune/i compagne/i presenti al campeggio antimilitarista di Cagliari, Ottobre 2015.