In questo articolo riportiamo per intero una lettera firmata “dei semplici (?) poliziotti penitenziari”, pubblicata oggi sulla Nuova di Venezia.
A chi avese avuto la sventura di finire in carcere, di avere un parente o un amico rinchiuso, di conoscere la prigione, anche da fuori, per quello che realmente è la sola lettura di questo testo dovrebbe bastare a rendere l’idea di che razza di esseri sono i secondini. Per tutti gli altri, le note in calce.
Buona lettura.
“Un carcere gestito dai detenuti”
Il carcere di Santa Maria Maggiore è arrivato all’ennesima pagliacciata in fatto di gestione, trattamento e rieducazione dei detenuti. Termini o parole che fino a qualche tempo fa avevano un significato e un peso notevole all’interno dell’istituto (1), così come era tato pensato, ideato e messo in pratica dai compilatori ed esecutori del trattamento (2) penitenziario, riassunto nel motto della Polizia penitenziaria “Vigilando redimere”.
I poliziotti penitenziari non possono più procedere(3) verso i detenuti che -“poverini”- hanno diritto a distruggere celle, mettere a soqquadro un’intera sezione, minacciare i poliziotti e gli altri operatori penitenziari (infermieri, dottori, etc) con le lamette, gridare, dare fuoco agli armadietti delle stanze (4), tutti costi che dopo vengono addebitati alla collettività educata che vive fuori dal carcere, ovvero noi cittadini, in quanto queste persone “brave e meritevoli” si fanno risultare nulla tenenti e se solo il personale vestito con una divisa che dovrebbe rappresentare lo Stato, ovvero l’autorità, si permette di pronunciare parole quali “fai silenzio o stai zitto”, vengono perseguiti e allontanati dai dirigenti, perchè così facendo è un’istigazione.
Guai soprattutto a eseguire una qualsiasi perquisizione sulla persona di questi soggetti, perchè gli si mette “le mani addosso”, viene visto come un maltrattamento nei loro confronti . Però, dopo, vengono richieste le motivazioni per cui si trovano proiettili dentro le sezioni, o circolano sostanze stupefacenti. Lo stesso comandante di reparto deve avere il permesso di parlare dai detenuti, il direttore non svolge il Consiglio di disciplina perchè ha paura di peggiorare la situazione, quindi è meglio chiudere gli occhi affinché questi delinquenti finiscano in fretta il fine pena e si levano (sic) di torno dall’istituto, con il paradosso che, rimessi in libertà, questi in meno di qualche settimana, rientrano in carcere per qualche altro reato che periodicamente leggiamo sui giornali, e dove tutti ci indigniamo.
A questo punto l’indignazione è una pura mascherata di fronte all’opinione pubblica. Adesso, comunque, i poliziotti penitenziari hanno la possibilità, se vogliono cambiare lavoro, di fare domanda direttamente agli hotel e alberghi extralusso, perchè non penso che in queste strutture ci sia il personale che accompagna il “cliente” in giro per tutta la struttura e far scegliere la stanza dove trascorrere le ferie pagate, tutto compreso, vitto-alloggio-quotidiano-visite mediche-dallo Stato; si è arrivati anche a questo negli ultimi giorni (5).
Ormai l’opinione pubblica deve capire che le grate che vede alle finestre dei carceri (sic) servono per tenere lontani i cittadini onesti da questo paradiso, e i poliziotti penitenziari sono diventati i “gorilla” dei detenuti affinché stiano tranquilli dai delinquenti che siamo noi cittadini.
Prendendo le distanze dall’imbarazzante sintassi, un paio di annotazioni:
(1)Termini come “gestione, trattamento, rieducazione” hanno avuto effettivamente un significato ed un peso notevole, fino a qualche tempo fa. Ricordiamo tutti i bei tempi della cella 408, la “liscia”, una stanza priva di arredamento e suppellettili usata per sbatterci dentro, nudi, i detenuti più impertinenti. Li devono ricordare in particolar modo gli amici e i parenti di Cherib, il ragazzo marocchino lasciato impiccare dai secondini nella suddetta cella nel 2009.
(2)Interessante che la permanenza in carcere, anche in attesa di giudizio, venga interpretata dai suoi guardiani come un “trattamento”. Una redenzione che passerebbe attraverso cibo marcio, illuminazione scarsa o inesistente, sadiche angherie quali il divieto di fare telefonate, il divieto di giocare a pallone, il divieto di leggere nella propria lingua madre e via dicendo.
(3)In pratica, come viene meglio esplicitato nelle righe successive, si lamenta il fatto di non poter più alzare le mani sui detenuti. Diversamente dai comunicati dei sindacati di polizia che abbiamo avuto modo di leggere, dove le lagne erano sempre funzionali a chiedere un miglioramento della propria misera condizione di lavoro, in questa lettera emerge tutta la frustrazione di dover sottostare a un regolamento troppo rigido e il rancore provato verso i “poveretti”.
(4)Gli echi e l’efficacia delle rivolte estive a Santa Maria Maggiore continuano a farsi sentire, e non può che farci piacere. Rivolte maturate, vale la pena ricordarlo, da condizioni di detenzione insostenibili ed esplose sempre dopo prepotenze delle guardie. Momenti di insubordinazione che hanno portato dei miglioramenti, anche se sempre troppo piccoli, all’interno del carcere, molti dei quali sono probabilmente l’oggetto della lamentela dei “semplici poliziotti”. Il “diritto di distruggere celle” di cui si parla non può essere che l’estrema conseguenza di una situazione insopportabile dove, per farsi minimamente valere, si arriva a devastare anche il proprio ridotto spazio vitale, gli oggetti quotidiani, quando non il proprio stesso corpo. Parlando di “lamette” ricordiamo tutti i ragazzi che, per avere un incontro con un congiunto o per lavorare in carcere, hanno praticato atto di autolesionismo, tagliandosi o ingoiando batterie.
(5)Il gran hotel con cui si fa il paragone è un posto dove le “stanze” ospitano il doppio delle persone previste, dove non c’è lo spazio per stare in piedi tutti nello stesso momento e manca completamente l’intimità. Dove, in un anno, sono morte due persone (Adrian, impiccatosi in cella e Manuel, pochi giorni fa, in circostanze ancora da chiarire) e non si contano i tentativi di suicidio. Un luogo dove, e qui i secondini ci azzeccano, chi è rinchiuso diventa il “cliente” di un sistema dai contorni indefiniti, pagando di tasca propria i generi di prima necessità, i costi di eventuali danni e il proprio mantenimento.
Traspare chiaramente una malcelata invidia nei confronti di chi, pur scontando una pena o in attesa di giudizio, a differenza di chi scrive prima o poi uscirà dal carcere. Un’invidia così viscerale che non si tace nemmeno per decenza, a pochi giorni dalla morte di un ragazzo fra le mura di quel luogo infernale.
Nulla di nuovo, si potrebbe dire.
Eppure tutto ciò non la smette di farci schifo.