Giornata impegnativa per la questura rodigina, quella di sabato 19 marzo.
Centro completamente blindato, negozi e attività chiuse su tutta via Mazzini, celere schierata e digos in assetto molesto per tutta la durata del presidio sotto al vecchio carcere di via Verdi, una struttura in via di dismissione vista l’imminente apertura di una nuova galera da duecento posti (estendibili a quattrocento).
Calorosa, almeno in un primo momento, la risposta dei ragazzi dentro: le urla si fanno sentire tra le mura di una città resa deserta dal massiccio schieramento di polizia. I numerosi interventi che si sono susseguiti hanno raccontato le rivolte che hanno preso vita negli altri penitenziari della regione, la prossima giornata di mobilitazione contro carcere e 41bis del 16 aprile e la funzione di “valvola di sfogo” che il nuovo carcere cittadino ricoprirà nell’immediato futuro. Uno striscione è dedicato anche alla Uil-Pa (ci si trova proprio sotto la sede), e ai suoi interventi per mettere a tacere le rivendicazioni dei detenuti di Santa Maria Maggiore lo scorso settembre, cercando di strumentalizzarle a vantaggio dei secondini.
Da segnalare il maldestro intervento di Massimo Bergamin, il sindaco leghista di Rovigo, che, non senza un’ammirabile nonchalance, tenta di avvicinarsi al presidio per instaurare un improbabile dialogo su solo lui sa cosa. Dopo essere stato allontanto, definirà, con mirabile sintesi di linguaggio, dei “mona”i partecipanti alla manifestazione.
Qui di seguito trovate il testo del volantino distribuito:
Un nuovo carcere, un altro carcere.
A Rovigo è da poco terminata la costruzione del nuovo carcere. Recentemente inaugurato con i suoi 200 posti estendibili a 400, si appresta a diventare uno dei penitenziari più grandi della regione. Nonostante i fasti della cerimonia inaugurale, la struttura non aprirà i battenti prima della prossima estate. La funzione riservata a questa piccola “grande opera” costata 29 milioni di euro sta nel fare da valvola di sfogo a una situazione in continua ebollizione.
Le carceri del Veneto versano infatti in una situazione di sovraffollamento inumano che nell’ultimo anno, è stata tra le cause principali di proteste portate avanti dai detenuti, sfociate in alcuni casi in vere e proprie rivolte. A Venezia, a Verona, ma anche a Belluno e Vicenza i reclusi hanno dato vita a mobilitazioni sia spontanee che organizzate, dimostrando che, dentro come fuori, l’unica libertà possibile e desiderabile è quella che risiede nella lotta stessa.
La risposta delle amministrazioni carcerarie, accanto ai provvedimenti disciplinari, è stata quella di trasferire i detenuti più attivi in altre prigioni, cercando di recidere i legami di solidarietà instaurati e allontanando le persone dai propri familiari e affetti. Provvedimenti odiosi, ma che non sono stati in grado di fermare la voglia di alzare la testa di chi è dentro; tant’è che le proteste, lungi dall’essere cessate, si sono diffuse in altre strutture.
Un carcere tutto da riempire, all’avanguardia e lontano dal centro abitato, è lo strumento perfetto per governare ogni possibile eccedenza di un sistema che, nel prossimo futuro, dovrà presentarsi ancora più solido ed efficiente.
L’apertura di una nuova galera non può essere una “festa” (per usare le parole del ministro Orlando), e nemmeno la soluzione di un problema endemico e radicale, che va al di là del freddo conteggio dello spazio vitale di un individuo.
Narrazioni pericolose.
Negli ultimi mesi le uniche notizie riguardanti la situazione interna al carcere di Rovigo sono giunte dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Queste sigle (Sappe, Osapp, Uilpa) lamentano le drammatiche condizioni in cui si troverebbe a operare il personale di custodia e, dall’inizio di gennaio, hanno indetto uno stato di agitazione che si è concretizzato nell’astensione dalla mensa per alcuni giorni e in una manifestazione per le vie della città. A ciò si aggiunga che, nella storia raccontata dalle organizzazioni sindacali, la nuova struttura sarebbe già infestata dai topi e compromessa dalle infiltrazioni d’acqua ancor prima di essere riempita.
In tutte queste narrazioni, che hanno trovato ampio spazio sui giornali locali, non vengono mai menzionati i detenuti, se non per urlare allo scandalo quando il personale di custodia è protagonista di qualche screzio o per lamentarsi delle loro “eccessive” libertà di movimento all’interno del carcere. Un copione che abbiamo visto inscenare già a Venezia, dove i sindacati di polizia penitenziaria hanno cavalcato le proteste dei reclusi per far ottenere alle proprie istante maggiore visibilità. Un mezzuccio che, se da una parte mette a tacere la voce di chi da dentro si ribella, è utile a trasmettere l’idea di un carcere dove tutti stanno male allo stesso modo e dove la rabbia dei detenuti può essere concertata come un orario lavorativo.
Sappiamo che la realtà è ben diversa, che nessuna pace può esserci tra chi rinchiude e chi è recluso, tra servi e sfruttati di questa società!
Strumentalizzazioni simili concorrono al progressivo affermarsi dei sindacati di polizia come forza politica vera e propria. I recenti connubi tra le sigle di cui sopra e partiti come la Lega di Salvini, sempre pronta a sostenere chi fomenta la guerra tra poveri per fini elettorali, rappresentano una pericolosa novità di cui è impossibile non tenere conto, anche quando si parla di detenzione.
Una riorganizzazione al passo con i tempi.
La costruzione delle nuove strutture, e l’ampliamento di quelle esistenti, prevista dal piano carceri del 2009 è quasi completata. In più, nella seconda metà del 2015, il piano straordinario per le carceri ha subito un’accelerazione con raffiche di bandi e gare d’appalto che a dicembre hanno sfiorato i 60 milioni destinati al prossimo e incessante ampliamento di numerosi istituti da Nord a Sud della penisola.
In linea parallela si sta facendo sempre più ricorso a forme di detenzione alternative: il rapporto tra carcerati e detenuti ai domiciliari è passato da 1 a 4 a 1 a 1 e continua a venire incoraggiato l’uso di queste misure per pene inferiori ai quattro anni.
Nel campo della detenzione amministrativa molti centri di identificazione ed espulsione (C.IE.) sono al momento in via di ristrutturazione, dopo essere stati dati alle fiamme dai reclusi, e sono in cantiere altrettanti “hotspot” che assumeranno a tutti gli effetti caratteristiche di centri di smistamento, molto simili a dei lager. Di fatto, queste nuove strutture di detenzione amministrativa renderanno più facili le procedure di identificazione, schedatura (con tanto di prelievo di impronte digitali) ed espulsione dei migranti non inclini a conformarsi alle leggi dei “democratici” paesi europei.
La cosiddetta “emergenza terrorismo”, ovvero ciò che rappresenta il ritorno della guerra in casa nostra, allarga i suoi orizzonti e sembra direzionarsi verso l’estensione del paradigma di detenzione amministrativa anche ad altre categorie, oltre ai migranti, sulla base non di prove ma di semplici indizi.
Dalla stessa motivazione parte anche l’esigenza di razionalizzare le sezioni ad “alta sicurezza” presenti in molte carceri, accorpandole e manifestando sempre più la tendenza di istituire nuove prigioni ad esclusivo regime “speciale”.
Ciò che si va prospettando è un futuro in cui sarà il carcere stesso ad uscire dalle mura, a diffondersi in altri luoghi e ad assumere connotati inediti.
A questo link trovate invece un contributo dei compagni e delle compagne di Out On Polesine sulla giornata: