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Corteo contro i fogli di via- Venezia sabato 5 dicembre ore 15.00

WEB-LOCANDINA corteo


FILI INVISIBILI

Dalla fine dello scorso luglio qualcosa è cambiato nella quotidianità del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore. La rivolta che ha fatto riaprire i blindi, chiusi per rappresaglia dopo il ferimento di una guardia da parte di un detenuto, ha divelto le gabbie della rassegnazione e ha aperto a possibilità inedite.Da quel momento molti mezzi sono stati messi in campo da chi, da fuori, crede che il carcere non sia poi così diverso da tutti gli altri dispositivi che governano le nostre vite: saluti pirotecnici, presidi con microfono aperto, colloqui selvaggi e spontanei dalle finestre, relazioni con parenti e amici dei ragazzi reclusi. Pratiche che hanno svelato tutta la vulnerabilità e l’inutilità di quelle mura, inceppandone per qualche istante il funzionamento e incrinandone la funzione.
La continua corrispondenza tra ciò che accadeva dentro e l’esterno ha permesso a molti incontri di avere luogo, di comprendere i meccanismi materiali e immaginari che permettono a quella fabbrica di solitudine e menzogna di continuare ad esistere.
La lotta dei detenuti si è mossa seguendo fili invisibili, con ritmi propri e l’oscillare di fortunate congiunture. L’esserci stati nel momento culminante della protesta, e il fatto che questa sia stata direttamente efficace ha concretizzato l’idea che ribellarsi è giusto e, soprattutto, serve. Una consapevolezza che ha dato il la allo “sciopero” dei detenuti di settembre: una mobilitazione organizzata con obiettivi specifici, ma divenuta dirompente per merito di tutte le sfaccettature che l’hanno resa difficilmente controllabile: accanto alle rivendicazioni c’era chi barricava le sezioni, incendiava i materassi e chi lottava semplicemente per il desiderio di mettersi in gioco.
Da quel momento anche altre carceri del Veneto hanno visto nascere al loro interno momenti di insubordinazione e di lotta. A Vicenza l’eco di una clamorosa protesta estiva, con i detenuti saliti sul tetto, ha risuonato in svariate battiture per la pessima qualità del vitto e la condizione di sovraffollamento. A Verona due incendi in 48 ore hanno intossicato una ventina di agenti nel mese di ottobre.
Eventi senz’altro conseguenti al pessimo stato nel quale si trovano i penitenziari, ma anche corrispondenze sotterranee, altri fili invisibili che, da dietro le sbarre, partono per riannodarsi ovunque qualche amante della libertà trova il coraggio di alzare la testa. Contro le condizioni che rendono la permanenza in carcere insopportabile ma, soprattutto, contro la propria condizione di reclusi.

CONFINI E BANDITI

In seguito alle proteste di Santa Maria Maggiore il Questore ha notificato 15 fogli di via da Venezia ad altrettanti solidali, per un periodo che va da uno a tre anni.
Il foglio di via rende illegale la permanenza in un territorio di persone ritenute sgradite o pericolose, anche in assenza di condotte penalmente perseguibili. In virtù della sua estrema versatilità, non necessita dell’approvazione di un magistrato, è una delle misure preventive più usate, da qualche anno a questa parte, per bandire chiunque non abbia una residenza certificata, un contratto di lavoro regolare o altri “leciti interessi” produttivi che lo leghino a un dato luogo.
Gli incontri, le amicizie, la voglia di vivere in un modo diverso da quello che ci dicono essere l’unico accettabile non rientrano nei codici della produttività e della tracciabilità, pertanto sono da considerare illeciti e dannosi.
Una concezione dell’abitare totalmente subordinata all’economia, funzionale a chi, assieme al completo controllo dello spazio pubblico, vorrebbe accaparrarsi la gestione delle vite che lo attraversano.
L’epoca che viviamo, nella sua ingovernabilità, rende necessario erigere nuovi confini, materiali o immateriali, per garantire che nulla turbi i flussi mercantili, fino a fare di “ogni sbirro una frontiera”.Fino a rendere la nostra presenza la discriminante tra il poter camminare per strada o l’essere denunciato, arrestato o deportato in un Cie per averlo fatto.
Quando un territorio diventa desiderabile non per i rapporti economici che lo sfruttano ma per le geografie improduttive che lo percorrono, il foglio di via traccia un ennesimo confine, più labile di altri, tra chi siamo e gli affetti che intratteniamo. La Val di Susa e la lotta contro l’Alta Velocità, Ventimiglia con il presidio No Border, l’opposizione alle basi militari in Sardegna rappresentano gli esempi più recenti di come il foglio di via cerchi di frapporsi tra un territorio e chi lo abita per trasformarlo. Ma anche di tante città dove le prospettive di una radicale rottura con l’esistente sono state il principale motivo che ha portato qualcuno a stabilirvisi.
Trovare la forza necessaria per schiantare questi confini, svelandoli nella loro fragilità di carta e cemento, significa attaccare direttamente chi li ha eretti.

CITTà COME PRIGIONI

Nella sola Venezia, quest’anno, sono stati più di duecento i provvedimenti di allontamento emessi dalla questura, la maggior parte nei confronti di senzatetto, abusivi, furfanti e altre categorie “sospette”. Non solo chi si organizza, ma anche chi lotta a proprio modo per vivere meglio in un mondo sempre più atomizzato e ostile diventa un soggetto indesiderabile, qualcuno “di troppo” da cacciare arbitrariamente.
Sebbene sia prassi dappertutto, lo scarto tra i flussi di milioni di visitatori economicamente produttivi e i suoi “rifiuti” a Venezia è reso ancora più stridente. Un ambiente reso inospitale dal suo totale essere merce, dove ci sono più alberghi che case e dove la priorità dei proprietari è non concedere nessuna residenza per poter meglio lucrare su fuori sede e turisti.
Scegliere di abitare in questo ambiente significa, inevitabilmente, affrontarlo: combattere la solitudine che irradia, dotarsi delle armi necessarie per non farsi rinchiudere nella scelta tra il vendere sè stessi e l’andarsene.
Sottrarsi ai dispositivi polizieschi, intessere relazioni di solidarietà non assistenziale, iniziare a vivere qui e ora seguendo il corso dei propri desideri. Non per costruire un altro carcere, un ghetto alternativo dove essere i carcerieri di noi stessi, ma per abbattere l’idea stessa di una società modellata sulle proprie prigioni.

A SABATO 5 DICEMBRE
A fronte di queste riflessioni abbiamo deciso di indire un corteo a Venezia per sabato 5 dicembre. Vogliamo non solo dare una risposta ai fogli di via arrivati nella nostra città ma che, come tutti i confini, anche quelli tracciati dai provvedimenti come questo smettano di esistere.
Per farlo cercheremo di renderli inefficaci, stavolta senza delegare al singolo l’onere di trovare il modo migliore per farlo.
Il nostro invito è aperto ai nemici del carcere e delle frontiere, a chi non rispetta i divieti, a chi ha sempre qualcosa da nascondere.
Violeremo i fogli di via attraversando la città da cui vorrebbero cacciarci, a fianco dei nostri compagni e le nostre compagne banditi, senza chiedere il permesso a nessuno.
Perchè i banditi non sono mai soli.
Perchè dove stare dobbiamo deciderlo noi, forti dei nostri illeciti interessi, dei nostri affetti criminali, delle nostre geografie pericolose.

Ci vediamo Sabato 5 Dicembre, Campo Santa Margherita, Venezia ore 15.00.

Contro i fogli di via e in solidarietà a tutti i detenuti in lotta!


A Bologna

Ieri a Bologna, durante la lunga giornata di lotta contro il comizio reazionario di Salvini e soci, sono stati arrestati due compagni di Venezia, dopo aver reagito ad un controllo di polizia mentre si recavano al concentramento di Stalingrado.

Una piccola ma rumorosa presenza di amici e solidali, in serata, ha salutato i ragazzi facendosi sentire all’esterno della questura, subito braccata e spinta ad andarsene dalle provocazioni della Digos e dal sopraggiungere di un plotone di celere.

Dopo una notte in questura, sono stati processati per direttissima con l’accusa di resistenza e lesioni. L’udienza è stata rinviata al 23 novembre e nel frattempo sono stati rilasciati a piede libero.
Cogliamo l’occasione per esprimere la nostra vicinanza e solidarietà anche all’altro compagno fermato nella giornata di ieri!
Con la gioia per aver subito potuto riabbracciare i nostri compagni, ci si vede alla prossima!


Storie dal San PioX

Il carcere, si sa, è il regno della menzogna.

Ed è in questa gabbia di falsità e vigliaccheria che una protesta dei detenuti diventa la rivendicazione di un sindacato di polizia, che l’aggredito diventa l’aggressore e che un fuoco d’artificio diventa un colpo di pistola. Ma andiamo con ordine.

San Pio X, carcere di Vicenza. Verso la fine dello scorso ottobre alcuni secondini trovano nei propri pasti, preparati dalla mensa del carcere, dei vermi. Segue comunicato del solito infame sindacato delle guardie, la Uil-Pa, che si è già contraddistinto per la maldestra opera di mistificazione operata durante lo sciopero dei detenuti del carcere di Venezia.

Passano alcuni giorni e i vermi diventano scarafaggi. Altro comunicato, altra reazione indignata delle guardie, che disertano la mensa. “Sciopero della fame della polizia penitenziaria” titolerà il giornale locale, tanto per dire.

Nel frattempo la situazione tra i detenuti è sempre più calda: si lamenta soprattutto il sovraffollamento e la totale mancanza di condizioni igieniche nella preparazione del vitto (se le guardie mangiano vermi e scarafaggi è solo da immaginare cosa sia riservato ai reclusi).

Il 28 ottobre un alterco fra detenuti e secondini porta a diverse botte e a un ragazzo messo in isolamento. Qualcuno protesta, inizia una battitura subito repressa con caschi e manganelli. Più di uno finisce in infermeria. Nemmeno una parola sui quotidiani locali ma, come al solito, ampio spazio alle lagne dei poliziotti.

6 Novembre, il “Giornale di Vicenza” parla di “colpi di pistola esplosi verso il carcere a scopo intimidatorio”. Qualche ora più tardi gli spari diventano razzi, fuochi d’artificio, ma il titolo resta lo stesso. Ancora da chiarire le ragioni del gesto, secondo gli inquirenti. Fatto sta che i botti esplosi la sera prima hanno scatenato una sonora risposta all’interno, con le guardie costrette ad intervenire in tutta fretta per calmare gli animi, come rivela con imbarazzo una nota della stessa Uil-Pa.

Nota che prosegue, non senza una malcelata preoccupazione, asserendo che “la situazione esplosiva, fuori e dentro, le carceri venete è lungi dall’essere risolta”.

Mentre accade tutto questo le gru e i macchinari all’esterno del San Pio X continuano a lavorare. Un’intera nuova ala del carcere è in costruzione, mitigherà il problema del sovraffollamento e farà girare un bel po’ di soldi pubblici, assecondando la volontà di chi vede necessario avere nuove galere da riempire.

Eppure, da questa estate, la lotta dei detenuti nelle prigioni del Veneto non si è mai acquietata del tutto. Prima Venezia, poi Vicenza e Verona: un’unica musica di fondo trasmessa da fili invisibili ha infiammato le sezioni, costruito scioperi e fatto scoprire complicità inedite. In molti hanno smesso di avere paura.

A Santa Maria Maggiore, nei giorni appena precedenti, un veloce saluto col megafono per raccontare quanto stava accadendo nella città berica ha dato il la ad una battitura dei ragazzi, la più intensa dai giorni dello sciopero di settembre. A volte basta poco.

Seguire questi fili, trovare nuove geometrie e corrispondenze, metterle in comunicazione. Fino a rompere la gabbia di menzogne che sorregge il dispositivo carcere. Farlo fino in fondo.


Fragile il vetro della clessidra

Ieri, 3 novembre, un corteo antimilitarista, dopo diversi momenti di scontro con la polizia, è riuscito ad entrare nel poligono di Capo Teulada, in Sardegna, interrompendo di fatto la Trident Juncture 2015, la più imponente esercitazione NATO sul suolo europeo dal 1989 a oggi.

Pubblichiamo qui sotto un contributo scritto da diversi compagni e compagne a Cagliari lo scorso ottobre, al termine del campeggio antimilitarista. Una riflessione sulla guerra e sulla militarizzazione dei territori e delle frontiere. Buona lettura.


 

FRAGILE IL VETRO DELLA CLESSIDRA
Siamo nemici della guerra. Come tutti vediamo i missili, i bombardamenti degli Stati, le stragi della cronaca, la realtà della guerra di tutti i giorni.
Vediamo che reale è la necessità della fuga dalla propria casa, dai propri amici, dai propri amori.
Vediamo vite come granelli di sabbia, chiuse in un sistema che torna ad uccidere ogni giorno, ma di cui intravediamo la fragilità.
Reale è la strada impercorribile di chi sogna ogni giorno la possibilità di assaporare la vita, reali sono le frontiere, le divise militari in ogni dove, le reclusioni, le espulsioni, il fiato pesante e onnipresente delle polizie e degli Stati. Reale è la nostra voglia di affrontare questo nemico.
L’Europa è stretta fra le sue frontiere. Dal Medio Oriente e dall’Africa migliaia di persone si accalcano sui confini della fortezza Europa, che fatica a tenerle fuori. Militari, campi di prigionia e respingimenti in mare non bastano a fermare chi fugge dalla guerra. Gli Stati europei si organizzano sospendendo Schengen e predisponendo piani per la ripartizione dei migranti in Europa.
Anche la NATO non perde tempo, a metà ottobre è iniziata Trident Jucture 2015, la più grande esercitazione dal 2002, per preparare il prossimo imminente intervento bellico. Tra bombe e missili, non manca il tentativo di rendere il tutto più digeribile,coinvolgendo nelle attività militari alcune organizzazioni non governative. Laddove il braccio armato ha mostrato i suoi limiti con “l’intervento umanitario”, soprattutto nel mantenimento dell’occupazione, eccolo avvalersi oggi della collaborazione civile.
Chi riesce, per fortuna o audacia, a sfuggire dall’occupazione militare, non può coltivare a lungo l’illusione di essersi allontanato dalla guerra, trovandosi le frontiere dell’Europa sbarrate e presidiate dagli stessi militari e dallo stesso filo spinato che si è appena lasciato alle spalle.
La guerra in casa
Abbiamo scelto come esempi e occasioni di analisi quattro fra i luoghi in cui, in questi mesi, la realtà della guerra di tutti i giorni e la nostra voglia di combatterla si sono concretizzati.
La Sardegna, il territorio più militarizzato d’Italia, è il giardino di casa degli eserciti di mezza Europa. Qui si preparano gli interventi nei teatri di guerra, qui la guerra non sempre si può definire simulata. In ottobre è scattata Trident Juncture 2015: migliaia fra soldati, mezzi corazzati, aerei e navi graviteranno intorno all’isola, bombardandola, in particolare nella zona più a sud, il poligono di Teulada. Quanto accaduto per TJ2015 è molto interessante da un punto di vista strategico e di possibile rilancio delle lotte antimilitariste, nonché per le connessioni che emergono tra l’isola e il resto d’Europa, sia per quanto riguarda le vicende militari, sia per chi le vuole attaccare.
In giugno, a seguito delle mobilitazioni contro la STAREX (un’esercitazione aerea di AMI e LuftWaffe), i vertici militari hanno fatto sapere che l’aeroporto di Decimomannu non sarebbe più stato coinvolto in TJ2015 perché “non sussistevano le condizioni di sufficiente tranquillità per svolgere attività di quella portata”, e sarebbe stato sostituito nelle gerarchie da quello di Trapani. Di Teulada, invece, la NATO non ha potuto fare a meno – probabilmente per la sua unicità nel mar Mediterraneo –, lasciando intendere un maggior investimento nell’apparato di sicurezza, e iniziando con largo anticipo a reprimere e minacciare chi stava pensando a quelle giornate come ad un
obiettivo.
Le lotte portate avanti negli ultimi dodici mesi, hanno fatto intuire quali possano essere le pratiche per disturbare concretamente la preparazione delle guerre, così come quali e quanti siano i collegamenti tra la Sardegna e il resto d’Italia, e tra la Sardegna e le guerre nel mondo, rendendo essenziale una riflessione sull’apertura e la diffusione della lotta.
Lampedusa, il lembo di territorio italico più a sud, più a sud di Malta, molto più a sud di Tunisi, praticamente un pezzo d’Europa sottratto all’Africa. Venti chilometri quadrati che negli ultimi anni sono diventati il principale approdo delle rotte migratorie dall’Africa verso nord. Tristemente nota per essere testimone delle stragi verificatesi nel canale di Sicilia, come di quelle avvenute sulle sue coste (su tutte quella del 3 ottobre 2013), Lampedusa è anche un interessante prototipo di costruzione delle nuove frontiere. Dotata di un CIE, ormai già trasformato in hot spot, l’isoletta è per metà militarizzata, vi sono sei radar costieri ed una presenza continua di piccoli o medi contingenti militari. Per gli abitanti dell’isola, la scelta dello Stato italiano di fare di Lampedusa il primo e più avanzato avamposto a difesa dell’Europa, è stata un’imposizione tremenda e senza via di scampo. Per i migranti, una trappola, mortale per alcuni, insuperabile per altri: senza identificazione dall’isola non te ne vai, facendoti identificare rischi il CIE, la galera o il rimpatrio. Lontana da quasi tutto, con una popolazione poco numerosa, seppur combattiva, è uno dei luoghi in cui lo Stato italiano continua la sperimentazione a tutti i livelli della “gestione” dei flussi migratori: a volte decide di far morire centinaia di persone in mare, a volte le “accoglie”, a volte ancora preferisce non far sapere niente a nessuno. Gli intrecci tra le due isole sono assai istruttivi: nel 2011 una serie di radar costieri non venne installata in Sardegna a causa dell’opposizione popolare e poco dopo finirono all’interno della zona militare di Lampedusa. Sempre nel 2011, durante la “primavera araba”, arrivarono a Lampedusa centinaia di tunisini in fuga, 800 dei quali furono trasportati in Sardegna e rinchiusi in vecchie caserme dell’aeronautica militare.
La frontiera è la fine di uno Stato e l’inizio di un altro. In questi ultimi mesi, il comune di Ventimiglia è passato sulla bocca di tutti. Con poco più di 20.000 abitanti, si trova proprio sul confine tra l’Italia e la Francia. La posizione geografica, alla base delle Alpi, ne fa uno dei passaggi più logici e apparentemente facili per chi vuole attraversare la frontiera. Dei tanti che ci provano qualcuno ci riesce, ma Gendarmerie e Polizia sono alla continua ricerca di clandestini. La Francia vorrebbe rispedire quanti più migranti in Italia, utilizzando qualsiasi prova di un passaggio nella penisola. Nel mese di giugno, in occasione della sospensione del trattato di Schengen, l’accalcarsi dei migranti sulla frontiera ha dato vita ad un presidio permanente, rimasto per mesi l’unico spazio dove chi era senza documento ritrovava un po’ di dignità.
Come tutti i luoghi dove le contraddizioni emergono, dove ciò che è vietato sembra diventare possibile, dove le persone si incontrano e organizzano, la controparte si presenta puntuale. Ecco quindi materializzarsi sempre più arrogante la presenza militare, con la solita struttura di supporto e repressione: la Croce Rossa, i centri di raccolta, i luoghi di prigionia temporanea.
Un’altra frontiera che collega l’Italia con il resto d’Europa è quella del Brennero. Centinaia sono i migranti che, in un modo o nell’altro, cercano di oltrepassare le Alpi. I treni che partono da Verona sono spesso i mezzi più utilizzati da chi non possiede un documento. Le polizie italiana, austriaca e tedesca si sono date da fare per qualche mese nell’identificazione, principalmente a bordo dei treni della compagnia austriaca OBB, distinguendo spudoratamente i controlli in base al colore della pelle. Nelle stazioni ferroviarie di Verona, di Bolzano e del Brennero la polizia è presente in forze.
Chi non riesce ad evitare i controlli viene accompagnato in appositi dormitori o in strade deserte, con la menzogna di essere arrivato in Germania, molto spesso in mezzo a null’altro se non la neve alpina. Ciò nonostante, la polizia a volte sembra non voler vedere il passaggio, per evitare un’esagerata concentrazione sul lato italiano della frontiera. Non è solo lo Stato a presentarsi puntuale all’arrivo di un viaggio infernale, sono varie le organizzazioni non governative che semplificano il lavoro di identificazione. I centri di raccolta sono in parte già pronti, in parte in
costruzione, sparpagliati sul territorio trentino e alto-atesino, e da un momento all’altro potrebbe concretizzarsi una chiusura totale delle frontiere.
Guardare nel ventre della bestia
La guerra sembra essere sempre così lontana, irraggiungibile, inattaccabile, immensa.
Guardare ai suoi orizzonti lascia spazio ad un grande senso di impotenza, ma a volte, raccogliendo la lente di ingrandimento, si riescono ad individuare delle fessure, delle brecce sensibili al tremare di qualche turbolenza, dove l’attacco torna ad essere una possibilità concreta. Così ci si accorge che diventare il granello di sabbia che inceppa la macchina può essere qualcosa di reale. La struttura della macchina bellica è attaccabile, si alimenta nelle università, nei luoghi di sperimentazione dell’intervento, nelle vite dei militari, nelle strade delle nostre città. È fatta anche di uomini e donne che vivono vicino a noi.
La guerra esiste da sempre. Storicamente era finalizzata a sottrarre le scorte alimentari ai nemici, per accaparrarsi le zone strategiche o più fertili e rigogliose, l’avvento del capitalismo e della società di massa ha cambiato tutto.
Una società basata sulla proprietà privata, sullo sfruttamento e sul consumo cerca e trova nella guerra linfa vitale. Nascono così le guerre imperialiste, volte alla conquista delle risorse più importanti del pianeta e allo sfruttamento dei popoli, e nasce così un nuovo sistema di guerra, che al giorno d’oggi ha preso la forma della guerra permanente.
Meno visibile, meno impressionante, ma non molto diversa nei risultati e nel numero di morti.
Da anni l’Italia ne è protagonista: migliaia di soldati continuamente impiegati in vari teatri bellici, senza nessuna vera e propria dichiarazione di guerra, ma non senza bombardamenti, stragi e massacri. Ciò è anche funzionale a giustificare ingenti investimenti nell’industria bellica, nonché a creare ciò di cui il capitalismo contemporaneo ha bisogno: nuovi schiavi.
Se fin dal Cinquecento gli Stati europei non si sono fatti problemi a sfruttare le popolazioni di mezzo mondo per trarne enormi profitti, oggi non devono nemmeno andare a cercare gli schiavi di cui hanno bisogno, arrivano direttamente in Europa da soli.
Spinti dalla miseria, dalle malattie e specialmente dalle guerre, migliaia di uomini e donne abbandonano la loro terra natia per cercare fortuna in Europa.
Per quelli che riescono ad arrivare ci sono confini da superare e campi di prigionia dai quali scappare, chi riesce ad evitarli o riesce ad uscirne ha come prospettiva una vita da fantasma senza documenti, obbligato a sottomettersi e ad accettare lavori e stipendi da schiavo. Questo non avviene per caso, è tutto ben studiato perché necessario.
Tutto ciò accade con la complicità silenziosa di chi non sa più accorgersi e neanche si chiede se lo Stato italiano sia in guerra, se quello dietro casa sia un centro di accoglienza o un lager. Lo Stato che ha violentato le parole con la stessa arroganza con cui ha bombardato i territori in sedicenti missioni di pace e guerre umanitarie, ha fatto del migrante il nemico numero uno, di cui avere paura e contro cui varare pacchetti sicurezza degni del ventennio, riportando i militari nelle strade e creando campi di prigionia a discriminazione etnica.
In questo clima non è strano che nessuno si stupisca della sospensione del trattato di Schengen, o che la NATO, con l’operazione TJ2015, stia dispiegando in Italia migliaia di uomini e mezzi per una possibile imminente guerra sul fronte orientale, o, ancora, che in mezzo al Mediterraneo ci sia un’isoletta utilizzata per sperimentare la gestione militare di emergenze civili. Non risulta strano che per preparare la guerra ci si avvalga di ONG e della Croce Rossa Italiana, per dare un volto umano al proprio operato.
L’evoluzione della strategia militare in guerra interna ed esterna prevede sempre più la collaborazione con componenti civili, umanitarie e non. Queste, da una parte, svolgono quei compiti che i militari non sono addestrati ad eseguire, in particolar modo nei momenti immediatamente successivi alle aggressioni e nelle operazioni di occupazione; dall’altra rendono più umano l’intervento, permettendo ai guerrafondai di usare i camici dei medici della CRI per pulirsi le mani sporche di sangue.
Questo mutamento ha notevolmente ampliato il terreno di sovrapposizione tra ambito civile e ambito militare, facilitando ulteriormente l’infiltrazione della militarizzazione nel tessuto sociale. Si può così dire che, a livello territoriale, la militarizzazione sia diventata un’enorme ragnatela, con diramazioni più difficili da vedere, ma non per questo immuni dall’attacco. Anzi, dal momento che i suoi fili arrivano ovunque, ovunque possono essere colpiti.
E’ difficile nascondere ad un occhio attento il via vai di migliaia di soldati lungo la penisola, i nomi delle ditte che costruiscono armi, caserme o prigioni, che posizionano il filo spinato lungo le frontiere, delle associazioni “umanitarie” che avallano le guerre. Anche se la dimensione e la forza di questo avversario sembrano non lasciar scampo a chi gli si vuole opporre, è proprio nella sua enormità che si possono intravedere delle crepe vulnerabili. La distribuzione su tutto il territorio di chi collabora, finanzia o è finanziato dal mondo militare lascia ampio spazio alla fantasia, ci permette di muoverci o colpire in anticipo, da vicino o da lontano.
La connessione che troviamo tra un’esercitazione militare in Sardegna e il filo spinato di Ventimiglia ci permette di vedere dietro quelle reti e oltre quel filo le stesse facce. Ci permette di cogliere come un’unica lotta quelli che potrebbero sembrare attacchi a due momenti apparentemente distinti del fenomeno bellico: il prima, con le esercitazioni e gli investimenti nell’industria bellica, e il dopo, con il tentativo di gestire “l’eccedenza umana” in fuga dalla distruzione.
L’intima connessione tra il prima e il dopo, due bulbi della stessa clessidra, richiede non solo una presa di coscienza, ma anche la sua espressione sul piano dell’attacco.
È proprio quest’esigenza che ci ha portato a scrivere questo testo.
Di fronte a fenomeni dalla portata epocale, tanto da sembrarci oltre le nostre possibilità di intervento, sentiamo i limiti di un approccio unicamente localistico. Vorremmo inscrivere la nostra prospettiva di attacco all’interno di un quadro più ampio, che ci permetta di percepire e valutare la portata e l’efficacia delle azioni che riescono ad inceppare, seppur per poco, il funzionamento della macchina bellica.
Sentire nostra una lotta che ovunque possa intensificarsi e darsi il coraggio necessario per osare passi decisi, dai territori che viviamo fino ovunque esista l’audacia che determina chi ha voglia di lottare. Vedere lo stesso nemico in una base militare, una frontiera, un CIE, un’organizzazione che con questi collabora. Riconoscere negli occhi di chi vi si oppone lo stesso sguardo dei compagni con cui quotidianamente ci confrontiamo e agiamo.
Questo cerchiamo, per darci slancio e prospettiva.
Ma non solo.
Vorremmo essere al fianco di chi decide di superare le frontiere, violando il legale perché assurdo e sbagliato, e magari insieme trasformare la necessità in desiderio. Crediamo che la ricerca della complicità, lì dove la necessità è più vicina al desiderio, possa trasformare chi si trova ad essere conseguenza della guerra, funzionale alla riproduzione di un sistema di sfruttamento, in presenza indesiderata. La causa primaria della fuga dall’occupazione militare è la necessità, ma è proprio in chi ha conosciuto il nostro stesso nemico più da vicino che cerchiamo l’esperienza del capovolgimento. Cerchiamo nella necessità il salto che ci permetterà di lottare insieme. Cerchiamo
il desiderio di vedere una frontiera abbattuta, un documento bruciato, una macchina della polizia capovolta.
Oggi il mondo capitalista può raggiungere qualsiasi spazio, può riempire le decisioni di statistica, ma non può prevedere i balzi incontenibili della rabbia. Se il ritorno economico “materiale”della guerra non è mai d’avanzo, quello “umano” deve essere invece contenuto e gestito, proprio per evitare che diventi incontrollabile. Questi sono i piani del capitale.
I suoi disastri hanno conseguenze decennali e i flussi migratori ne sono un aspetto.
Superare le frontiere è un traguardo senza dubbio necessario, ma la loro esistenza divide in zone meglio gestibili il mondo che vogliamo dimenticare. È così per chi scappa dalla guerra come per chi decide di lottare.
La possibilità di incontrarci è proprio lì dove sono accesi i fuochi che potrebbero diventare incendio, proprio lì dove rifiutiamo la legalità e impariamo che lottare non ha niente da spartire con i discorsi di certi “paladini dell’accoglienza”.
Vogliamo passare all’azione prima che sia troppo tardi.
Vogliamo continuare a forzare queste crepe, affinché la clessidra si rompa del tutto.
Non possiamo fare altro che continuare a cercare i nostri complici.
Alcune/i compagne/i presenti al campeggio antimilitarista di Cagliari, Ottobre 2015.

 


Tredici

Dopo un mese di relativa tranquillità nel carcere veneziano, il totale dei fogli di via notificati (tra effettivi e avvii di procedimento) è arrivato ormai a tredici.

Tutto fa pensare che il numero sarà destinato a crescere nei prossimi giorni.

In attesa di possibili risposte e mobilitazioni in proposito qui sotto trovate scaricabili un manifesto e la versione stampabile del testo  sul momento .

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Chi viene e chi va

Oggi un altro avvio di procedimento per foglio di via è stato notificato a un compagno non residente a Venezia. Fin’ora sono otto i provvedimenti di allontanamento dal Comune notificati per i fatti relativi al 29 e al 30 luglio scorso (5 effettivi e 3 in avvio).

Appare ormai chiara la volontà della questura di tenere lontani dalle mura del carcere non solo chi è abitualmente attivo in città ma anche tutti coloro che, potenzialmente, potrebbero portare da fuori solidarietà alla lotta dei detenuti.

Nel frattempo, dopo un sospetto silenzio, sono riprese a uscire notizie dall’interno: pare che alcune condizioni siano migliorate, che molti più ragazzi abbiano accesso ai luoghi di lavoro e che sia persino arrivato qualche soldo di sussidio. In un articolo apparso su un quotidiano locale, datato 10 ottobre, il ministro della giustizia in persona promette “attenzione” sulla situazione di Santa Maria Maggiore, sdrammatizzando sulla situazione di sovraffollamento. In fin dei conti, dopo i trasferimenti seguiti alla protesta, i detenuti hanno ben 3 metri quadri di spazio personale a testa, di che si lamentano?

Da novembre, inoltre, è annunciato l’arrivo di nuovi secondini freschi di addestramento, per supplire alle tanto lamentate carenze di organico.


Sul momento

“Considerato altresì che la prevenuta persona pericolosa per la sicurezza pubblica si trova fuori dal comune di residenza e a Venezia non svolge alcuna attività lavorativa, nè ha beni o leciti interessi o altro valido motivo che giustifichi la sua presenza”

E’ questa la formula rituale con la quale le Questure, in assenza di condanne definitive e persino di una chiusura delle indagini, allontanano dal territorio di propria competenza le persone sgradite.
Nel linguaggio poliziesco si chiama “foglio di via”.
Sono sette i fogli di via emessi dal Questore di Venezia nei mesi scorsi, ai danni di compagni e compagne che hanno manifestato in vari modi la propria solidarietà ai detenuti di Santa Maria Maggiore, impegnati in una lotta contro le pessime condizioni detentive e gli abusi dell’amministrazione penitenziaria.
Momenti di lotta importantissimi, durante i quali si sono intessuti legami e complicità inaspettate, durante i quali l’isolamento e la solitudine, fondamenta del sistema carcere, sono sembrati vecchi ricordi di cui ridere.
Momenti che hanno inceppato, anche se sempre per troppo poco, il dispositivo carcere, mostrandolo per la sadica fabbrica di torture e rassegnazione che è sempre stato.

Ovunque il Capitale disegna le proprie geografie, visibili e invisibili. Videosorveglianza, retate, gentrificazione, galere e Cie tracciano le rotte dei flussi mercantili, costantemente presidiati dalla polizia affinchè nulla turbi il loro scorrere. Dove la vita si manifesta nella sua più intima ingovernabilità la polizia erige confini, barriere valicabili solo da chi si ritiene utile, da chi si è identificato.
“Ogni sbirro è una frontiera”, più che uno slogan, sembra essere l’odiosa quotidianità di un numero sempre maggiore di persone, lì dove chi si è diventa la discriminante tra il poter camminare liberamente per strada e l’essere denunciato, incarcerato o deportato in un centro per averlo fatto.
Rendere illegale la permanenza nello spazio pubblico significa rivendicarne il totale governo, ambire alla completa gestione della vita che lo attraversa. Una posta in palio che va oltre l’incostituzionalità di un foglio di via o la rivendicazione di un diritto alla cittadinanza.

Parallelamente al Capitale, chi si organizza per attaccarlo, o semplicemente per sopravvivergli, trova anch’esso le proprie geografie. Case occupate, strade discrete, vicini solidali, rifugi estemporanei e complicità sovversive.
Erigere un confine significa tagliare queste rotte, frapporsi tra l’individuo e il suo mondo ponendone delle condizioni di accesso.
Se sei produttivo e lavori sotto salario, se hai una residenza rintracciabile, se la liceità dei tuoi interessi è comprovata ti è concesso rimanere, fino a nuovo ordine.
La legalità dell’abitare è sottomessa al suo essere economia, nell’accezione più ampia del termine.
In una città dove ci sono più alberghi che case rivendichiamo il nostro abitare illegalmente, la possibilità di vivere ovunque si trovino dei validi motivi per farlo.
Rivendichiamo l’improduttività economica delle nostre vite, tutti i nostri illeciti interessi, la criminalità dei nostri affetti, la pericolosità di pensare di poter fare a meno di prigioni e carcerieri.
Il foglio di via non è altro che un confine, l’ennesimo e più labile di altri, tra una presenza non giustificata e un mondo sempre più assente da sè stesso, popolato di estranei.
Il momento attuale ce lo insegna chiaramente: ogni qual volta si incontra un confine si può trovare la forza necessaria per abbatterlo, svelandolo in tutta la sua fragilità di carta e cemento.

Non ne rimarrà che il fragore del suo schianto.


Ancora sotto quelle mura

Ci avevano provato.

Due settimane fa, con la notifica di quattro fogli di via a quattro solidali con le proteste dentro Santa Maria Maggiore. Poco dopo, con il trasferimento di diversi detenuti, accusati di essere i “capi della rivolta”, in altre carceri del Veneto.

A uno di questi, “sballato” in pigiama senza nemmeno la possibilità di recuperare i propri effetti personali, è stata fornita come motivazione il fatto che avrebbero sentito sua moglie salutarlo al microfono durante uno dei tanti presidi di sostegno improvvisati.

Ci hanno provato. Notificato un altro inizio di procedimento per foglio di via ad un’altra solidale questa settimana. Facendo telefonate minatorie e invitando le persone a non presentarsi sotto le mura.

Strumentalizzando schifosamente la notizia del tentato suicidio in cella di un ragazzo, che avrebbe aggredito il suo secondino “salvatore”, per lamentarsi ancora della loro misera vita di carcerieri.

Ci hanno provato, ma non ci sono riusciti. La manifestazione di sabato 3 ottobre è stata molto più partecipata del solito, ha espresso solidarietà alle lotte dei detenuti e ai solidali colpiti dai provvedimenti di allontamento.

Nonostante la pressante presenza sbirresca, che ha isolato completamente la zona del carcere e del tribunale, più di un parente e qualche amico dei reclusi si è unito a un presidio sempre più numeroso.

Poco prima della fine la celere è avanzata, cercando a tutti i costi un pretesto per caricare, rimediando qualche insulto (anche da dentro) e una figura patetica.

Più di qualcuno, da dietro le sbarre, ha ringraziato le tante persone accorse riuscendo ad aprire le finestrelle delle celle e sporgendosi per salutare. Un sostegno coraggioso che aiuta a non demordere e a continuare sulla bellissima strada che si è riusciti a tracciare.

Il presidio, dopo un breve corteo per le calli, si è infine spostato in Campo Santa Margherita, dove si è improvvisato un concerto e un volantinaggio informativo.

I detenuti di Santa Maria Maggiore vi ricordano che il carcere è una merda. Già. Ma anche che sotto, e dentro, un carcere si può piangere, di gioia, di tristezza, di commozione, che si può ridere a crepapelle, fare festa, sbeffeggiare insieme una guardia troppo zelante. Ci ricordano che del carcere si può smettere di avere paura.

E non finisce di certo qui.

carcere3ott


Qui trovate in allegato il pieghevole distribuito sabato 3 ottobre. Un inizio di riflessione sulla lotta degli ultimi mesi e sulle problematiche del carcere veneziano. DEFINITIVO PIEGHEVOLE

 


Censure e avvii di procedimento

Nell’attesa del presidio di sabato 3 oggi è stato notificato un inizio di avvio di procedimento per un’altro foglio di via da Venezia a una compagna. Se dovesse diventare definitivo sarebbe il quinto provvedimento di allontamento emesso in pochi giorni.

Nel frattempo la corrispondenza con i ragazzi dentro si fa sempre più rarefatta, in maniera sospetta. Le poche lettere che arrivano giungono visibilmente aperte e manomesse. Seguiranno aggiornamenti nei prossimi giorni.

L’appuntamento è sabato 3 ottobre alle 15 in Rio Terà dei Pensieri.


Sotto al carcere di Vicenza

Una cinquantina di persone. Musica, cori e tanti interventi.

Viene ricordato lo sciopero di Santa Maria Maggiore, l’uccisione di Federico Aldrovandi avvenuta 10 anni fa, di cui uno degli sbirri responsabili è ancora in servizio a Vicenza.

Qualche bella risposta, oltre alle sbarre e alle spesse e distanti mura, riesce a farsi sentire.

L’appuntamento è sabato prossimo sotto al carcere di Venezia, mentre si è venuti a sapere che i detenuti trasferiti in altre carceri dopo la protesta, definiti dai giornali “i capi della rivolta”, sono almeno venti…