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Urla e battiture a Santa Maria Maggiore

Succede lo scorso 29 luglio. Un caldo pomeriggio d’estate si riempie di urla e forti, fortissimi, rumori metallici. Il carcere di Santa Maria Maggiore, a due passi da Piazzale Roma e dal quartiere di Santa Marta, è teatro di una protesta calda e rumorosa. Si sono già sentite battiture e rumori tra queste mura, ma era da un bel po’ non erano così forti.

Tempo di chiamare gli amici e prendere su un paio di pentole per far casino, si raduna sotto il carcere un presidio improvvisato, tirando anche in mezzo qualche passante. Si urla con i detenuti, si improvvisa una battitura dall’esterno. Le guardie osservano, ben protetti dalle grate, e chiudono il portone d’ingresso. Non dev’essere una bella situazione, per loro.

Un piccolo corteo costeggia la struttura e, giunti in Rio Terà dei Pensieri, è possibile rispondere alle tante voci da dentro. “Non va bene niente” e “Aiutateci” le frasi più sentite. Nel frattempo, con sommo sbigottimento di digos e guardie giunte a monitorare la situazione, vengono usate le griglie di un cantiere per rispondere alla battitura. L’entusiasmo di fuori rilancia la rabbia che si respira dentro: quando sembra sul punto di affievolirsi, il casino riprende dopo aver sentito l’incitamente dei solidali.

La cosa prosegue per un paio d’ore, la poca polizia accorsa si rinchiude dietro il portone del carcere al passaggio di un altro piccolo corteo.

Pare che il tutto sia iniziato dopo che un detenuto, afferrato dai secondini in malo modo, abbia staccato con un morso la falange a uno di questi. Sembra, a leggere i giornali, che la situazione dentro il carcere veneziano sia divenuta da qualche tempo intollerabile: più di dieci aggressioni in due settimane. 

Il giorno successivo, con più pentole e un po’ di musica, si ritorna a sentire come stanno i ragazzi. Meno rabbia del giorno prima ma più parole, frasi che scardinano le sbarre e qualche nuovo nome da salutare. In serata qualche fuoco d’artificio illumina la notte: un po’ di festa per chi è recluso, un po’ di salti sulla sedia per chi sorveglia.

Di seguito il testo di un volantino distribuito in quei giorni ai colloqui dei familiari


 

Venezia 31-07-2015

In questi ultimi giorni i detenuti di Santa Maria Maggiore hanno iniziato una sonora protesta con cori, urla e battiture durante anche ore, facendosi ben udire dalle case vicine e catturando l’attenzione di non pochi passanti e solidali.
Se non sono ben chiare le cause per cui la protesta ha preso piede, con un’intensità e una diffusione che non si vedeva da anni, ci sembra anche superfluo cercarle, come se non bastasse stare chiusi tutto il giorno, tutti i giorni, in celle minuscole e sovraffollate, in una struttura male illuminata e fatiscente, subire pestaggi e angherie di varia natura per decidere di far valere la propria rabbia.
Le uniche notizie uscite a proposito riguardano, manco a dirlo, le “scomode” posizioni dei secondini e del personale amministrativo. Sono articoli di giornale scritti da sindacati di polizia che denunciano una situazione, per loro, allarmante: pare che solo nelle ultime due settimane vi siano stati nove casi di aggressione di detenuti verso i loro carcerieri. L’ultimo in ordine di tempo è addirittura costato una falange, staccata con un morso, a uno di questi.
Non possiamo che gioire di queste notizie, anche se la storia che raccontano davvero è, molto probabilmente, quella di una situazione giunta al limite della sopportazione per molti, dove anche il più cieco gesto di ribellione, con tutte le pesanti ritorsioni che porta verso chi lo compie, è comunque preferibile all’accettazione supina dello stato di cose.
La posizione di Santa Maria Maggiore, uno delle poche carceri italiane rimaste in centro città, rappresenta sicuramente un vantaggio per chi protesta: il forte rumore delle battiture ha resto impossibile per chiunque passasse in quei momenti non sentire le urla dei detenuti, come ad alcuni passanti di fermarsi per comunicare con i ragazzi dentro. Nel tardo pomeriggio di mercoledì le persone ferme a supportare la battitura erano più di una cinquantina. Un sostegno che ha permesso a chi è dentro di continuare con ancora più forza, come hanno testimoniato le tante urla di ringraziamento e le battiture che riprendevano ancora più forti dopo gli incoraggiamenti esterni.
Una presenza che non è mancata nemmeno nel pomeriggio di giovedì, dove con un po’ di musica e un microfono, gli sbeffeggi e gli insulti alle guardie arrivavano da entrambi i lati del muro di cinta.
Nei prossimi giorni la protesta potrebbe affievolirsi o, chissà, se adeguatamente sostenuta all’esterno, magari sfociare in qualcosa di più forte, portare degli effettivi cambiamenti nella vita quotidiana dei reclusi.
Non bisogna mai dimenticare che ogni piccolo vantaggio, ogni oggetto che è possibile tenere con sè in cella, ogni minuto di ogni ora d’aria in carcere è stato a suo tempo ottenuto con proteste e sommosse interne, spesso violentissime per ritorsioni e vendette delle guardie. Ne va dell’umanità che si riesce a conservare, l’unico antidoto reale alla galera.
Nemmeno dobbiamo minimizzare il ruolo di chi, da fuori, può aiutare la protesta: sappiamo bene che un saluto verso le finestre scalda il cuore, spinge a continuare a lottare, come un impropero a un secondino, e la sensazione che nulla possa passare lì dentro sotto silenzio, può portarlo a più miti consigli.
Da parte nostra invitiamo chiunque senta o abbia riportate notizie di ciò che sta accadendo a Santa Maria Maggiore in questi giorni a farle circolare il più possibile, a raccontare cosa è accaduto e a starsene con le orecchie tese.


Due testi per una festa

Riportiamo qui sotto due testi diffusi durante la 4a Festa di Santa Marta (o Sagra Marziana che dir si voglia).


 

Primo, dei quartieri e delle comunità che vi abitano.

Finestre chiuse, sanitari intasati dal cemento, infiltrazioni d’acqua che coinvolgono gli appartamenti adiacenti. Chi vive a Santa Marta sa bene quante case vuote puntellino il tessuto urbano del quartiere. Tante almeno quanti i fondi di bottega lasciati in preda all’abbandono: il ricordo delle attività commerciali, e delle persone che le animavano, è sempre una nota di fondo nei discorsi di chi abita questo pezzo di città.
Questa situazione, che contribuisce a costruire l’idea di un quartiere triste e disabitato, è il frutto di precise scelte economiche e politiche: la volontà di tenere sfitti gli immobili è direttamente proporzionale alle future prospettive di speculazione.
Santa Marta infatti è, all’oggi, arrivata ad un punto decisivo della propria storia: nei prossimi mesi verrà completato il tratto di tram che collegherà la Stazione Marittima a Mestre e al resto della terraferma, con tappa proprio all’entrata del quartiere, nei pressi dell’attuale imbarcadero Actv.
Questa infrastruttura sbloccherà la possibilità di nuovi investimenti in quest’area, una delle pochissime (se non l’ultima), radicalmente trasformabile all’interno della città storica, nonchè strategicamente centrale per la gestione di nuovi flussi turistici. Oltre a possedere, nelle immediate vicinanze, due delle zone non ancora edificate più grandi della città (Italgas e Magazzini frigoriferi), Santa Marta è infatti un nodo di interscambio tra trasporto acqueo e trasporto su gomma, vicinissimo tanto al terminal delle crociere quanto all’università e al resto del Veneto. E’ facile immaginare quali trasformazioni, coadiuvate da una visione di sintesi “metropolitana” del territorio, avverranno in quartiere nei prossimi anni, dopo l’arrivo del tram: costruzione del nuovo campus universitario, edificazione nell’area Italgas, nuova porta d’accesso cittadina per crocieristi. Trasformazioni studiate, ed è importante ribadirlo, non per migliorare la qualità della vita di chi oggi abita Santa Marta ma a uso e consumo dei “nuovi abitanti altamente qualificati” (così definiti dall’ormai ex prorettore all’edilizia di Ca Foscari Stocchetti, tra i più gioiosi promotori del campus all’ “americana”).
Un quartiere “smart”, dove ricercatori, studenti e creativi, comodamente connessi via tram al nuovo polo di via Torino, potranno scegliere se soggiornare negli ampi appartamenti dell’ormai ex edilizia popolare o in un nuovo dormitorio dal fascino post-industriale, progettando futuristiche architetture “green” destinate al “social housing” nell’ultima area verde rimasta improduttiva della città. Ma anche una pittoresca parentesi, per milioni di turisti, tra l’economico albergo nell’hinterland e l’imbarco sulla crociera, giusto il tempo di comprare l’ultima mascherina nel nuovo negozio di idiozie prima di godersi la vista di Venezia dal ponte della nave.
Sembra fantascienza e potrebbe benissimo esserlo se non avessimo visto, e toccato con mano, i devastanti impatti legati all’introduzione di nuove infrastrutture e poli d’attrazione nel fragilissimo equilibrio della nostra città. Se non avessimo già visto Strada Nuova diventare un albergo a cielo aperto dopo la costruzione del Ponte di Calatrava o le calli tra punta della Dogana e l’Accademia mortificarsi in distretto dell’arte nel giro di pochi anni.
Fermare questi progetti, e soprattutto le loro conseguenze a lungo termine, è tanto difficile quanto necessario. In passato abbiamo promosso incontri informativi sul progetto del tram e sugli interventi ad esso collegati. Ci siamo accorti che il dissenso era forte ma, da solo, per quanto determinato, non poteva bastare.
Abbiamo iniziato ad abitare questo quartiere provando a diffondere un’idea della vita opposta a quella che ci vorrebbero imporre, senza aspettare la sfiga di turno su cui piangere o incazzarsi. La vita che vogliamo, qui come in mille altre parti del mondo, ha al centro la qualità delle relazioni che riusciamo a costruire, il mutuo appoggio, la capacità e la voglia di mettersi in gioco, da soli o in compagnia, per rendere il presente qualcosa di più desiderabile di una forsennata corsa alla sopravvivenza ai danni del prossimo. Non esiste un solo modo per farlo, ma infiniti: c’è chi organizza una mangiata in calle invitando i vicini, chi cura un orto collettivo, chi occupa una casa sfitta e chi, semplicemente, trova il tempo per prestare attenzione a ciò che lo circonda.
Si tratta, per tutti, di iniziare da ora a prendere in mano la propria esistenza, estromettendo chi cerca di determinarlain nome del profitto.
Negli ultimi mesi abbiamo avuto un piccolo assaggio dei mezzi messi in campo dalla controparte: tentativi di staccare le utenze alle case occupate, l’interruzione dell’energia elettrica allo spazio “Bulli e Pupe”, due sgomberi di case avvenuti con la forza pubblica. Poca cosa, certo, se paragonata alla situazione delle periferie delle grandi città, ma indicazioni precisi di ciò che potrà avvenire in un futuro non troppo remoto, non appena i progetti sul quartiere acquisteranno maggiore concretezza.
Occorrerà farsi trovare pronti, continuando a fare ciò che già facciamo, ancora meglio e con più complici. Fino a che, di un tram, di una grande nave o di un campus universitario, non sapremo davvero più che farcene.


Secondo, del carcere e di chi vi abita attorno.

A poche decine di metri da qui c’è un carcere.
A chi abita a Santa Marta capita spesso di passare davanti alle mura di Santa Maria Maggiore per andare a prendere l’autobus, per attraversare la città, portando a spasso il cane. Tutti i giorni si possono sentire le parole di guardie e detenuti, assordanti silenzi, blindi che si chiudono, si possono vedere mani anonime sbucare dalle “bocche di lupo”, i cambi turno del personale, le barche che portano le forniture al mattino e il portone d’ingresso che si chiude la sera.
Convivere con quelle mura, con quelle gabbie, certo non ci piace. Tuttavia il fatto che il carcere di Venezia sia rimasto in centro storico, piuttosto che in qualche periferia deserta, da la possibilità di costruire un qualche tipo di relazione tra chi è fuori e chi è dentro, affinchè nessuno si senta nè rimanga solo.
A finire in carcere, spesso, è chi non confessa o non collabora e chi non può permettersi un bravo avvocato o di commutare la propria pena in un valore pecuniario. Poveri, tossicodipendenti, immigrati non in regola: la maggior parte della popolazione carceraria italiana è costituita da autori, o presunti tali, di reati commessi per sfuggire o cambiare la propria condizione di emarginati in uno stato di cose iniquo per definizione.
Dentro ci si trova con altre tre, quattro, sei persone in spazi talmente angusti che non tutti possono stare in piedi contemporaneamente, con un’elevata percentuale di malati (epatite B e C, scabbia, Hiv), dai lavandini esce solo acqua fredda, i servizi igienici e l’angolo cottura sono tutt’uno, il vitto è scadente e il sopravvitto (i generi di base che il detenuto può acquistare a sue spese)è costosissimo. Il periodo estivo è sempre il più difficile per i detenuti: con il caldo le condizioni di sovraffollamento raggiungono livelli assimilabili alla tortura.
In questo Santa Maria Maggior non fa eccezione: il numero dei reclusi è ampiamente superiore alla capienza prevista (si parla di oltre 300 persone a scapito dei 161 posti “regolari”) e l’amministrazione è stata più volte invitata a migliorare l’illuminazione interna della struttura e ad abolire la famigerata “liscia”, una cella punitiva priva di suppellettili in cui i detenuti venivano rinchiusi nudi.
In questo contesto per chi alza la testa, non rispettando le regole della direzione, non accondiscendendo ad ogni richiesta delle guardie, rifiutando l’auto contenzione a base di psicofarmaci, ci sono le sanzioni disciplinari (dal richiamo all’isolamento che può durare fino a 15 giorni), le perquisizioni, i pestaggi, i trasferimenti punitivi.
Di carcere, inoltre, si muore: sono più di 2000 i decessi avvenuti all’interno delle carceri italiane negli ultimi dieci anni, senza contare le persone morte in seguito ad un ricovero ospedaliero.
Le cause principali sono da ricercare nel degrado e nell’insalubrità delle strutture, nelle azioni o nelle omissioni del personale medico o di custodia, nelle decisioni del Magistrato di Sorveglianza che, negando i benefici di pena, aumenta la disperazione dei detenuti e con essa la voglia di farla finita.
Negli ultimi tempi anche a Venezia si sono verificati dei suicidi. Nel 2009 si è tolto la vita Cherib, giovane marocchino pizzicato con dell’hascish, dopo essere stato sbattuto nella “liscia” con una coperta che ha usato per impiccarsi. In seguito alla vicenda è stato aperto un procedimento penale sulla condotta delle guardie, a conoscenza delle tendenze suicide del giovane, che è ancora in corso. All’inizio di quest’anno invece ha scelto di farla finita Adrian, ragazzo di 19 anni che si è visto aprire le porte del carcere per l’esecuzione di una custodia cautelare inerente a un piccolo furto compiuto due anni prima. Privato della possibilità di scontare la custodia ai domiciliari non ha retto alla prospettiva della reclusione, uccidendosi nella doccia.
Due storie emblematiche, accadute a pochi metri dal quartiere dove abitiamo, in grado di darci la misura di quanto in carcere si soffra come di quanto quest’istituzione, più che a reinserire gli emarginati all’interno della società, assomigli più a un assurdo buco nero in cui, spesso senza nemmeno sapere il perchè, si finisce per sprofondare.
Il carcere non è la soluzione ma parte del problema perchè il problema è una società che ha bisogno del carcere per continuare ad esistere. Il problema è una società fondata sulla diseguaglianza, sull’individualismo sfrenato, sull’ansia e sulla depressione, non chi rompe le sue regole per sopravviverne.
La prospettiva non può essere che quella dell’auto organizzazione dei detenuti e della solidarietà attiva di chi è fuori, soprattutto nei momenti in cui sono gli stessi detenuti a iniziare una forma di lotta: con lo sciopero del carrello, dell’aria, dello spesino.
Liberarsi dal carcere è iniziare a fare i conti con esso, informarsi su chi ci lavora e chi ci collabora, mettendo in comune le esperienze e le strategie adottate da chi ha avuto la sventura di entrarci. Iniziare a conoscerlo per averne meno paura, coltivando sempre più relazioni di confronto sulle tematiche del controllo, della repressione, della reclusione, che si tratti di un carcere, di un C.I.E. o di un O.P.G. .

 


Striscioni e solidarietà

Anche stamattina, giorno della seconda udienza per Francesco, Lucio e Graziano, una piccola manifestazione di solidarietà da Venezia. Striscione calato sopra il banner di Expo a Piazzale Roma.

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Invitiamo tutti i solidali No Tav al concerto benefit per i compagn* arrestat* venerdì prossimo (15 maggio) a Padova, alla Marzolo Occupata. La serata sarà preceduto da un dibattito sui fronti No Tav aperti nel nostro territorio e sulla solidarietà alla lotta . Qui di seguito trovate il testo introduttivo e la locandina in pdf.

E’ passato più di un anno e mezzo dai primi arresti No Tav per terrorismo, relativi al sabotaggio del cantiere Tav di Chiomonte del 14 maggio 2013.
Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia hanno rivendicato la loro presenza quella notte, ribadendo le loro ragioni e la propria appartenenza alla lotta contro l’Alta Velocità. Caduta l’accusa di terrorismo sono ora ai domiciliari.
Anche Francesco e Lucio, arrestati l’11 luglio scorso insieme a Graziano, hanno ammesso e rivendicato la loro partecipazione al sabotaggio. Il loro processo terminerà con la condanna in prima grado il prossimo 27 maggio. Sono attualmente detenuti alle Vallette di Torino, dopo una lunga permanenza in AS2 a Ferrara, in pessime condizioni.
Nel corso di questo ultimo anno e mezzo abbiamo visto come la solidarietà attiva, declinata con un’inedita varietà di mezzi e a più livelli, abbia influito, e non poco, sugli esiti del processo ai quattro compagni, in particolar modo sul rigetto dell’accusa di terrorismo.
Questo però non può bastarci: la migliore solidarietà da esprimere verso chi è in carcere è continuare, con maggiore forza e determinazione di prima, ciò che i compagni imprigionati stavano portando avanti. In questo caso non solo la lotta contro un treno, contro un’opera nociva e che continua a tagliare fondi al trasporto pendolare, ma la costruzione, all’interno di questa lotta, di un’ipotesi rivoluzionaria.
Recentemente nel nostro territorio sono sorti diversi comitati No Tav in opposizione alla realizzazione di specifici segmenti di Alta Velocità. Molti compagni e compagne che hanno attraversato la lotta in Val di Susa stanno portando il loro apporto in queste situazioni, con alchimie e risultati ancora da scoprire. In che modo questa ipotesi può trovare spazio anche fuori dalla Valle? In che modo le relazioni e la forza presenti nei singoli territori possono unirsi e portare un apporto positivo ai No Tav valsusini?

Ne discutiamo, previi aggiornamenti sui singoli contesti, con No Tav del Basso Garda, di Venezia e del Trentino. Mensa Marzolo Occupata, venerdì 15 maggio ore 17.00.

DIBATTITO NO TAV MARZOLO locandina


Il sabotaggio è amico di chi lotta

Mestre, alba del 23 aprile. “Il sabotaggio è amico di chi lotta, Fra, Lucio e Graziano liberi subito, No Tav”. Il processo inizierà poche ore dopo, con un rinvio fissato al 12 maggio e la sentenza per il 26 dello stesso mese.

fra lucio graziano


A(f)fari spenti Atto II

Nemmeno il tempo di pubblicare “A(f)fari spenti” che si sente dalla finestra un rumore molto familiare… si fa un giro per le calli del quartiere e ci si trova davanti una scena assai divertente:

gli stessi operai che la mattina si sono dedicati alla ricerca delle chiavi dello spazio “Bulli e Pupe”, presumibilmente non avendole trovate, sono ora intenti a tranciare la porta dello stesso con il flessibile al fine di raggiungere il contatore generale dell’illuminazione delle calli.

Ciò detto non possiamo che ringraziare comune e Ater per aver fornito una dimostrazione pubblica di come si entri negli spazi quando l’accesso è apparentemente interdetto.

Chissà se a Ca’ Farsetti (sede del Comune) sono attaccati al contatore elettrico del vicino?!?


A(f)fari spenti

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Ieri, 10 Aprile, lo spazio “Bulli e Pupe”, una vetrina nel centro del quartiere di Santa Marta, è stato formalmente riconsegnato dal Comune all’Ater, il locale ente regionale per l’edilizia pubblica.

La Municipalità ne aveva infatti pagato per anni l’affitto all’ente per fornire uno spazio “pubblico” agli abitanti di Santa Marta. Il “Bulli e Pupe” in passato ha avuto molte funzioni: sede del Comitato Abitanti, dopo scuola per bambini, punto di appoggio per persone in difficoltà, infine la vetrina è stata occupata per un paio d’ anni al fine di creare un luogo per altre attività di quartiere.

A causa dei tagli ai servizi, la Municipalità si vede impossibilitata a sostenere il canone di locazione perciò ieri mattina, come sopra citato, ha riconsegnato le chiavi all’Ater.

La consegna delle chiavi si è svolta in mattinata ed ha visto presenti funzionari dell’ente regionale e del Comune. Durante questa “cerimonia” sono state cambiate le serrature del locale e abbassati i contatori elettrici all’interno.

Questo cambio di gestione, che doveva passare inosservato, ha invece creato un vero e proprio shock al quartiere: tanto da generare un black out totale nelle sue calli.

Solo l’alba è riuscita a illuminare la zona facendo intravedere operatori della pubblica illuminazione (possessori delle chiavi fino al giorno prima) intenti a chiedere a chiunque come poter entrare nello spazio “Bulli e Pupe”.

All’interno della vetrina, infatti, oltre al contatore della stessa vi è anche quello che regola l’illuminazione dei lampioni dell’intero quartiere, ebbene… sono stati abbassati entrambi.

A questo punto possiamo fare alcune considerazioni.

La prima è che troviamo singolare e comico che il Comune dopo aver “tolto” lo spazio agli abitanti si rivolga, a poche ore di distanza, agli stessi per potervi rientrare; inutile chiedere porta a porta le chiavi quando la serratura del locale è stata cambiata.

La seconda è che aver passato una notte, e forse altre ancora, al buio non ci dispiace, soprattutto a fronte dell’inquinamento luminoso (Porto, Terminal Grandi Navi, Porto Marghera) che quotidianamente assedia Santa Marta.

La terza è che questa vicenda esplicita ancora una volta la necessità di riappropriazione e autogestione degli spazi del quartiere da parte degli abitanti, avendo come unica alternativa l’incapacità delle istituzioni.

 

“Non ho paura del buio fuori.
E’ il buio dentro le case che non mi piace.”


La festa è solo rimandata

Da una delle periferie della metropoli Nord-Est: quartiere Cave-Chiesanuova, Padova, un grigio primo pomeriggio di aprile.

Sbucano fuori di corsa, con le pettorine della polizia e i manganelli in mano. Sul piazzale della piccola chiesa, in via Tartaglia si sta radunando il Comitato di Lotta per la Casa di Padova, ma non si fa nemmeno a tempo ad alzare gli occhi verso la palazzina vuota che sono già addosso. Tirano via le persone dalle macchine, spintonano e prendono a pugni, con una fisicità che non ha altro scopo che l’intimidazione brutale, prepotente.

Arriva la celere, quattro, cinque camionette da cui scendono in corsa. Iniziano a picchiare duro, a caso, mentre gli altri continuano a mettere le mani addosso, provocando. Dieci minuti di follia che terminano con diverse botte, un compagno portato in questura per resistenza e un ragazzo semi-svenuto a terra. Verrà soccorso dall’ambulanza dopo quasi mezz’ora.

Nel frattempo la polizia divide etnicamente il gruppone: da una parte gli italiani, dall’altra tutti gli immigrati, premurandosi di non far in alcun modo dialogare gli uni con gli altri. Non appena ci si avvicina si viene respinti a spintoni e minacce. Alcuni immigrati vengono invitati a recuperare i propri documenti in questura nel giro di un’ora, rendendo di fatto possibile ritrovarsi tutti solo dopo parecchie ore.

Recidere legami, minare alla base tutte le possibili complicità. A questo ha mirato oggi il dispositivo poliziesco. Stroncare il morale, far passare la voglia di iniziare, solo grazie all’aiuto dei propri compagni di strada e di lotta, qui e ora a vivere diversamente. Lo dimostra l’ostentata fisicità del contatto, la divisione rigida divisione etnica durante l’identificazione, l’immissione del “sospetto”, intervenendo prima della commissione di qualsiasi reato e non lasciando quindi altri margini di interpretazione

Indicativo che tutto ciò sia avvenuto non prima dell’occupazione di un appartamento, nè di un altro spazio politico, ma all’affacciarsi della possibilità di un posto più grande e “misto”, una palazzina dove poter sperimentare forme di vita collettive tra persone diverse per provenienza e attitudine. Un pericolo troppo grande per l’ordine schizofrenico di questo territorio imploso sui suoi propri valori e miti. Un pericolo da continuare, senz’altro, ad inseguire, con ancora più rabbia e determinazione di prima.

La festa è stata solo rimandata.

 

padova


Comunicato degli Occupanti dell’Ex Ospizio sull’incendio di lunedì 23 marzo

Nella sera di lunedì è stato appiccato il fuoco all’ingresso dell’ex Ospizio Occupato e alle porte delle case vicine. Solo la prontezza degli occupanti, subito intervenuti con un estintore, ha evitato che l’incendio si propagasse ulteriormente e che qualcuno si facesse male. Un gesto infimo e vile che ha messo a serio rischio la vita di chi abita nello stabile e nelle case circostanti, e di cui qualcuno, ci auguriamo senza l’intervento di sbirri e magistrati, dovrà prendersi responsabilità e conseguenze.

Non sarà certo questa vigliaccata, pur con tutta la miseria e l’infamità che si porta dietro, a farci desistere dal portare avanti le nostre idee in ciò che mettiamo in pratica tutti i giorni.

Un grazie di cuore a tutti coloro che ci hanno subito dimostrato vicinanza e solidarietà.

Gli e le occupanti dell’ex Ospizio Contarini


Casa murata? Casa riaperta!

Stamattina alcuni solerti cittadini del quartiere hanno provveduto a rimuovere (a mazzate, s’intende) l’abuso edilizio compiuto ieri da polizia e Opera Pia delle Elemosiniere che, dopo aver sgomberato una casa occupata in Fondamenta dell’Arzere, avevano provveduto a murarla e a renderla inagibile.

Qui sotto la casa prima e dopo l’ “intervento”. A buon rendere.

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Casa sgomberata? Casa murata!

Stamattina (4 marzo) operai, digos e sbirraglia varia si presenta alla porta della casa occupata in Fondamenta dell’Arzere. Dopo aver sfondato la porta procedono a sgomberarne l’unico occupante, che non oppone resistenza. 

La casa verrà murata nel corso della mattinata. Nelle foto sottostanti due solerti lavoratori all’opera nell’erigere l’infame abuso edilizio. Di seguito il comunicati di alcuni solidali.


 

 

 

 

 

 

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La mattina del 4 marzo 2015 polizia, digos, operai e funzionari dell’Opera Pia delle Elemosiniere hanno sfondato la porta della casa occupata in Fondamente dell’Arzere, cacciandone l’unico occupante che non ha opposto resistenza.

La casa, di proprietà dell’Opera Pia, lasciata vuota e a marcire da più di dieci anni, recentemente era stata occupata da persone che avevano deciso di ristrutturarla per abitarla, non volendo o non riuscendo a pagare gli affitti spropositati che questa città impone.

In seguito allo sgombero gli operai, chiamati dai funzionari dell’Opera, hanno provveduto a rompere i sanitari, sbarrare le imposte e a murare l’ingresso dell’edificio, al fine di impedire che qualcun altro possa anche solo pensare di ristabilirsi tra quelle quattro mura.

Non ci fanno paura la polizia e gli sgomberi: chi vive questo quartiere tutti i giorni sa che, attraverso le sue reti informali di solidarietà e di mutuo appoggio, non resterà solo e non avrà difficoltà alcuna a trovare un’altra sistemazione. Questo sgombero però non è un caso isolato, è in perfetta continuità con la vera è propria guerra agli occupanti di case iniziata dal governo Renzi attraverso l’articolo 5 del Piano casa, che non permette l’allaccio delle utenze e di stabilire la propria residenza a chi è considerato abusivo. Negli ultimi mesi innumerevoli sono stati gli sgomberi di alloggi, da Roma a Milano, passando per Firenze e molte altre città. Tuttavia la difesa di questa pratica, che in molti quartieri realmente abitati è percepita come legittima e necessaria, ha costretto più volte la polizia a interrompere le operazioni di sgombero.

Ci preme però fare un paio di considerazioni in proposito.

La prima è che se si preferisce lasciare una casa vuota e murata piuttosto che vederla abitata è perchè ciò è funzionale al disegno di “riqualificazione” di Santa Marta. Gli enti pubblici (Ater, Ire, Opera Pia etc..) al pari dei privati, fanno di tutto pur di lasciare il proprio patrimonio immobiliare vuoto, in attesa che il prezzo del mattone ritorni a crescere anche in questo pezzo di città. Un futuro che è già qui, cosa presente, e che arriverà sotto forma dei binari del tram, della costruzione del nuovo campus per studenti in luogo della facoltà di scienze e delle speculazioni immobiliari nell’area dell’ex Italgas. Cacciare i residenti, chi ha deciso di prendere casa qui, i poveri per lasciare spazio ai “nuovi abitanti altamente qualificati”, ad appartamenti di pregio e a un quartiere che diventerà un nuovo braccio di terra-ferma.

L’altra è che l’unica maniera credibile per mettersi di traverso a questi piani, per salvaguardare non il quartiere così com’è ma ciò che siamo riusciti a costruire di comune fra chi vi abita, è quella di proseguire nella strada delle occupazioni, del fare da soli, del far vivere il quartiere dove abitiamo senza aspettare il permesso di qualcuno.

Non sarà uno sgombero a fermarci, ci rivediamo nelle calli!