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Due testi per una festa

Riportiamo qui sotto due testi diffusi durante la 4a Festa di Santa Marta (o Sagra Marziana che dir si voglia).


 

Primo, dei quartieri e delle comunità che vi abitano.

Finestre chiuse, sanitari intasati dal cemento, infiltrazioni d’acqua che coinvolgono gli appartamenti adiacenti. Chi vive a Santa Marta sa bene quante case vuote puntellino il tessuto urbano del quartiere. Tante almeno quanti i fondi di bottega lasciati in preda all’abbandono: il ricordo delle attività commerciali, e delle persone che le animavano, è sempre una nota di fondo nei discorsi di chi abita questo pezzo di città.
Questa situazione, che contribuisce a costruire l’idea di un quartiere triste e disabitato, è il frutto di precise scelte economiche e politiche: la volontà di tenere sfitti gli immobili è direttamente proporzionale alle future prospettive di speculazione.
Santa Marta infatti è, all’oggi, arrivata ad un punto decisivo della propria storia: nei prossimi mesi verrà completato il tratto di tram che collegherà la Stazione Marittima a Mestre e al resto della terraferma, con tappa proprio all’entrata del quartiere, nei pressi dell’attuale imbarcadero Actv.
Questa infrastruttura sbloccherà la possibilità di nuovi investimenti in quest’area, una delle pochissime (se non l’ultima), radicalmente trasformabile all’interno della città storica, nonchè strategicamente centrale per la gestione di nuovi flussi turistici. Oltre a possedere, nelle immediate vicinanze, due delle zone non ancora edificate più grandi della città (Italgas e Magazzini frigoriferi), Santa Marta è infatti un nodo di interscambio tra trasporto acqueo e trasporto su gomma, vicinissimo tanto al terminal delle crociere quanto all’università e al resto del Veneto. E’ facile immaginare quali trasformazioni, coadiuvate da una visione di sintesi “metropolitana” del territorio, avverranno in quartiere nei prossimi anni, dopo l’arrivo del tram: costruzione del nuovo campus universitario, edificazione nell’area Italgas, nuova porta d’accesso cittadina per crocieristi. Trasformazioni studiate, ed è importante ribadirlo, non per migliorare la qualità della vita di chi oggi abita Santa Marta ma a uso e consumo dei “nuovi abitanti altamente qualificati” (così definiti dall’ormai ex prorettore all’edilizia di Ca Foscari Stocchetti, tra i più gioiosi promotori del campus all’ “americana”).
Un quartiere “smart”, dove ricercatori, studenti e creativi, comodamente connessi via tram al nuovo polo di via Torino, potranno scegliere se soggiornare negli ampi appartamenti dell’ormai ex edilizia popolare o in un nuovo dormitorio dal fascino post-industriale, progettando futuristiche architetture “green” destinate al “social housing” nell’ultima area verde rimasta improduttiva della città. Ma anche una pittoresca parentesi, per milioni di turisti, tra l’economico albergo nell’hinterland e l’imbarco sulla crociera, giusto il tempo di comprare l’ultima mascherina nel nuovo negozio di idiozie prima di godersi la vista di Venezia dal ponte della nave.
Sembra fantascienza e potrebbe benissimo esserlo se non avessimo visto, e toccato con mano, i devastanti impatti legati all’introduzione di nuove infrastrutture e poli d’attrazione nel fragilissimo equilibrio della nostra città. Se non avessimo già visto Strada Nuova diventare un albergo a cielo aperto dopo la costruzione del Ponte di Calatrava o le calli tra punta della Dogana e l’Accademia mortificarsi in distretto dell’arte nel giro di pochi anni.
Fermare questi progetti, e soprattutto le loro conseguenze a lungo termine, è tanto difficile quanto necessario. In passato abbiamo promosso incontri informativi sul progetto del tram e sugli interventi ad esso collegati. Ci siamo accorti che il dissenso era forte ma, da solo, per quanto determinato, non poteva bastare.
Abbiamo iniziato ad abitare questo quartiere provando a diffondere un’idea della vita opposta a quella che ci vorrebbero imporre, senza aspettare la sfiga di turno su cui piangere o incazzarsi. La vita che vogliamo, qui come in mille altre parti del mondo, ha al centro la qualità delle relazioni che riusciamo a costruire, il mutuo appoggio, la capacità e la voglia di mettersi in gioco, da soli o in compagnia, per rendere il presente qualcosa di più desiderabile di una forsennata corsa alla sopravvivenza ai danni del prossimo. Non esiste un solo modo per farlo, ma infiniti: c’è chi organizza una mangiata in calle invitando i vicini, chi cura un orto collettivo, chi occupa una casa sfitta e chi, semplicemente, trova il tempo per prestare attenzione a ciò che lo circonda.
Si tratta, per tutti, di iniziare da ora a prendere in mano la propria esistenza, estromettendo chi cerca di determinarlain nome del profitto.
Negli ultimi mesi abbiamo avuto un piccolo assaggio dei mezzi messi in campo dalla controparte: tentativi di staccare le utenze alle case occupate, l’interruzione dell’energia elettrica allo spazio “Bulli e Pupe”, due sgomberi di case avvenuti con la forza pubblica. Poca cosa, certo, se paragonata alla situazione delle periferie delle grandi città, ma indicazioni precisi di ciò che potrà avvenire in un futuro non troppo remoto, non appena i progetti sul quartiere acquisteranno maggiore concretezza.
Occorrerà farsi trovare pronti, continuando a fare ciò che già facciamo, ancora meglio e con più complici. Fino a che, di un tram, di una grande nave o di un campus universitario, non sapremo davvero più che farcene.


Secondo, del carcere e di chi vi abita attorno.

A poche decine di metri da qui c’è un carcere.
A chi abita a Santa Marta capita spesso di passare davanti alle mura di Santa Maria Maggiore per andare a prendere l’autobus, per attraversare la città, portando a spasso il cane. Tutti i giorni si possono sentire le parole di guardie e detenuti, assordanti silenzi, blindi che si chiudono, si possono vedere mani anonime sbucare dalle “bocche di lupo”, i cambi turno del personale, le barche che portano le forniture al mattino e il portone d’ingresso che si chiude la sera.
Convivere con quelle mura, con quelle gabbie, certo non ci piace. Tuttavia il fatto che il carcere di Venezia sia rimasto in centro storico, piuttosto che in qualche periferia deserta, da la possibilità di costruire un qualche tipo di relazione tra chi è fuori e chi è dentro, affinchè nessuno si senta nè rimanga solo.
A finire in carcere, spesso, è chi non confessa o non collabora e chi non può permettersi un bravo avvocato o di commutare la propria pena in un valore pecuniario. Poveri, tossicodipendenti, immigrati non in regola: la maggior parte della popolazione carceraria italiana è costituita da autori, o presunti tali, di reati commessi per sfuggire o cambiare la propria condizione di emarginati in uno stato di cose iniquo per definizione.
Dentro ci si trova con altre tre, quattro, sei persone in spazi talmente angusti che non tutti possono stare in piedi contemporaneamente, con un’elevata percentuale di malati (epatite B e C, scabbia, Hiv), dai lavandini esce solo acqua fredda, i servizi igienici e l’angolo cottura sono tutt’uno, il vitto è scadente e il sopravvitto (i generi di base che il detenuto può acquistare a sue spese)è costosissimo. Il periodo estivo è sempre il più difficile per i detenuti: con il caldo le condizioni di sovraffollamento raggiungono livelli assimilabili alla tortura.
In questo Santa Maria Maggior non fa eccezione: il numero dei reclusi è ampiamente superiore alla capienza prevista (si parla di oltre 300 persone a scapito dei 161 posti “regolari”) e l’amministrazione è stata più volte invitata a migliorare l’illuminazione interna della struttura e ad abolire la famigerata “liscia”, una cella punitiva priva di suppellettili in cui i detenuti venivano rinchiusi nudi.
In questo contesto per chi alza la testa, non rispettando le regole della direzione, non accondiscendendo ad ogni richiesta delle guardie, rifiutando l’auto contenzione a base di psicofarmaci, ci sono le sanzioni disciplinari (dal richiamo all’isolamento che può durare fino a 15 giorni), le perquisizioni, i pestaggi, i trasferimenti punitivi.
Di carcere, inoltre, si muore: sono più di 2000 i decessi avvenuti all’interno delle carceri italiane negli ultimi dieci anni, senza contare le persone morte in seguito ad un ricovero ospedaliero.
Le cause principali sono da ricercare nel degrado e nell’insalubrità delle strutture, nelle azioni o nelle omissioni del personale medico o di custodia, nelle decisioni del Magistrato di Sorveglianza che, negando i benefici di pena, aumenta la disperazione dei detenuti e con essa la voglia di farla finita.
Negli ultimi tempi anche a Venezia si sono verificati dei suicidi. Nel 2009 si è tolto la vita Cherib, giovane marocchino pizzicato con dell’hascish, dopo essere stato sbattuto nella “liscia” con una coperta che ha usato per impiccarsi. In seguito alla vicenda è stato aperto un procedimento penale sulla condotta delle guardie, a conoscenza delle tendenze suicide del giovane, che è ancora in corso. All’inizio di quest’anno invece ha scelto di farla finita Adrian, ragazzo di 19 anni che si è visto aprire le porte del carcere per l’esecuzione di una custodia cautelare inerente a un piccolo furto compiuto due anni prima. Privato della possibilità di scontare la custodia ai domiciliari non ha retto alla prospettiva della reclusione, uccidendosi nella doccia.
Due storie emblematiche, accadute a pochi metri dal quartiere dove abitiamo, in grado di darci la misura di quanto in carcere si soffra come di quanto quest’istituzione, più che a reinserire gli emarginati all’interno della società, assomigli più a un assurdo buco nero in cui, spesso senza nemmeno sapere il perchè, si finisce per sprofondare.
Il carcere non è la soluzione ma parte del problema perchè il problema è una società che ha bisogno del carcere per continuare ad esistere. Il problema è una società fondata sulla diseguaglianza, sull’individualismo sfrenato, sull’ansia e sulla depressione, non chi rompe le sue regole per sopravviverne.
La prospettiva non può essere che quella dell’auto organizzazione dei detenuti e della solidarietà attiva di chi è fuori, soprattutto nei momenti in cui sono gli stessi detenuti a iniziare una forma di lotta: con lo sciopero del carrello, dell’aria, dello spesino.
Liberarsi dal carcere è iniziare a fare i conti con esso, informarsi su chi ci lavora e chi ci collabora, mettendo in comune le esperienze e le strategie adottate da chi ha avuto la sventura di entrarci. Iniziare a conoscerlo per averne meno paura, coltivando sempre più relazioni di confronto sulle tematiche del controllo, della repressione, della reclusione, che si tratti di un carcere, di un C.I.E. o di un O.P.G. .

 


La festa è solo rimandata

Da una delle periferie della metropoli Nord-Est: quartiere Cave-Chiesanuova, Padova, un grigio primo pomeriggio di aprile.

Sbucano fuori di corsa, con le pettorine della polizia e i manganelli in mano. Sul piazzale della piccola chiesa, in via Tartaglia si sta radunando il Comitato di Lotta per la Casa di Padova, ma non si fa nemmeno a tempo ad alzare gli occhi verso la palazzina vuota che sono già addosso. Tirano via le persone dalle macchine, spintonano e prendono a pugni, con una fisicità che non ha altro scopo che l’intimidazione brutale, prepotente.

Arriva la celere, quattro, cinque camionette da cui scendono in corsa. Iniziano a picchiare duro, a caso, mentre gli altri continuano a mettere le mani addosso, provocando. Dieci minuti di follia che terminano con diverse botte, un compagno portato in questura per resistenza e un ragazzo semi-svenuto a terra. Verrà soccorso dall’ambulanza dopo quasi mezz’ora.

Nel frattempo la polizia divide etnicamente il gruppone: da una parte gli italiani, dall’altra tutti gli immigrati, premurandosi di non far in alcun modo dialogare gli uni con gli altri. Non appena ci si avvicina si viene respinti a spintoni e minacce. Alcuni immigrati vengono invitati a recuperare i propri documenti in questura nel giro di un’ora, rendendo di fatto possibile ritrovarsi tutti solo dopo parecchie ore.

Recidere legami, minare alla base tutte le possibili complicità. A questo ha mirato oggi il dispositivo poliziesco. Stroncare il morale, far passare la voglia di iniziare, solo grazie all’aiuto dei propri compagni di strada e di lotta, qui e ora a vivere diversamente. Lo dimostra l’ostentata fisicità del contatto, la divisione rigida divisione etnica durante l’identificazione, l’immissione del “sospetto”, intervenendo prima della commissione di qualsiasi reato e non lasciando quindi altri margini di interpretazione

Indicativo che tutto ciò sia avvenuto non prima dell’occupazione di un appartamento, nè di un altro spazio politico, ma all’affacciarsi della possibilità di un posto più grande e “misto”, una palazzina dove poter sperimentare forme di vita collettive tra persone diverse per provenienza e attitudine. Un pericolo troppo grande per l’ordine schizofrenico di questo territorio imploso sui suoi propri valori e miti. Un pericolo da continuare, senz’altro, ad inseguire, con ancora più rabbia e determinazione di prima.

La festa è stata solo rimandata.

 

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Casa murata? Casa riaperta!

Stamattina alcuni solerti cittadini del quartiere hanno provveduto a rimuovere (a mazzate, s’intende) l’abuso edilizio compiuto ieri da polizia e Opera Pia delle Elemosiniere che, dopo aver sgomberato una casa occupata in Fondamenta dell’Arzere, avevano provveduto a murarla e a renderla inagibile.

Qui sotto la casa prima e dopo l’ “intervento”. A buon rendere.

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Casa sgomberata? Casa murata!

Stamattina (4 marzo) operai, digos e sbirraglia varia si presenta alla porta della casa occupata in Fondamenta dell’Arzere. Dopo aver sfondato la porta procedono a sgomberarne l’unico occupante, che non oppone resistenza. 

La casa verrà murata nel corso della mattinata. Nelle foto sottostanti due solerti lavoratori all’opera nell’erigere l’infame abuso edilizio. Di seguito il comunicati di alcuni solidali.


 

 

 

 

 

 

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La mattina del 4 marzo 2015 polizia, digos, operai e funzionari dell’Opera Pia delle Elemosiniere hanno sfondato la porta della casa occupata in Fondamente dell’Arzere, cacciandone l’unico occupante che non ha opposto resistenza.

La casa, di proprietà dell’Opera Pia, lasciata vuota e a marcire da più di dieci anni, recentemente era stata occupata da persone che avevano deciso di ristrutturarla per abitarla, non volendo o non riuscendo a pagare gli affitti spropositati che questa città impone.

In seguito allo sgombero gli operai, chiamati dai funzionari dell’Opera, hanno provveduto a rompere i sanitari, sbarrare le imposte e a murare l’ingresso dell’edificio, al fine di impedire che qualcun altro possa anche solo pensare di ristabilirsi tra quelle quattro mura.

Non ci fanno paura la polizia e gli sgomberi: chi vive questo quartiere tutti i giorni sa che, attraverso le sue reti informali di solidarietà e di mutuo appoggio, non resterà solo e non avrà difficoltà alcuna a trovare un’altra sistemazione. Questo sgombero però non è un caso isolato, è in perfetta continuità con la vera è propria guerra agli occupanti di case iniziata dal governo Renzi attraverso l’articolo 5 del Piano casa, che non permette l’allaccio delle utenze e di stabilire la propria residenza a chi è considerato abusivo. Negli ultimi mesi innumerevoli sono stati gli sgomberi di alloggi, da Roma a Milano, passando per Firenze e molte altre città. Tuttavia la difesa di questa pratica, che in molti quartieri realmente abitati è percepita come legittima e necessaria, ha costretto più volte la polizia a interrompere le operazioni di sgombero.

Ci preme però fare un paio di considerazioni in proposito.

La prima è che se si preferisce lasciare una casa vuota e murata piuttosto che vederla abitata è perchè ciò è funzionale al disegno di “riqualificazione” di Santa Marta. Gli enti pubblici (Ater, Ire, Opera Pia etc..) al pari dei privati, fanno di tutto pur di lasciare il proprio patrimonio immobiliare vuoto, in attesa che il prezzo del mattone ritorni a crescere anche in questo pezzo di città. Un futuro che è già qui, cosa presente, e che arriverà sotto forma dei binari del tram, della costruzione del nuovo campus per studenti in luogo della facoltà di scienze e delle speculazioni immobiliari nell’area dell’ex Italgas. Cacciare i residenti, chi ha deciso di prendere casa qui, i poveri per lasciare spazio ai “nuovi abitanti altamente qualificati”, ad appartamenti di pregio e a un quartiere che diventerà un nuovo braccio di terra-ferma.

L’altra è che l’unica maniera credibile per mettersi di traverso a questi piani, per salvaguardare non il quartiere così com’è ma ciò che siamo riusciti a costruire di comune fra chi vi abita, è quella di proseguire nella strada delle occupazioni, del fare da soli, del far vivere il quartiere dove abitiamo senza aspettare il permesso di qualcuno.

Non sarà uno sgombero a fermarci, ci rivediamo nelle calli!


Carnevalate/3

Soliti vandalismi la notte del sabato di Carnevale. Sfondata la vetrina di Bucintoro Viaggi, il cui proprietario è Fabio Sacco (Presidente di Alilaguna) e imbrattate con vernice rossa le facciate di H&M, Benetton, Max Mara e Calvin Klein.

Qualcuno, in vena di commenti intelligenti, afferma : “potevano imbrattare anche i monumenti”. Sì, ma perchè ?

Qui sotto trovate l’articolo di cronaca

 

http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2015/02/16/news/vandali-in-azione-a-san-marco-1.10876694

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Carnevalate/2

Continuiamo con le Carnevalate. Una stringata rassegna dei fatti più gustosi accaduti in giro per Venezia in questi vuoti giorni di mscherine, pon pon e altre brutture.


 

 

Dai giornali di qualche giorno fa pare che il candidato alle primarie del PD, sponda renziana, Jacopo Molina, sarebbe stato “aggredito” a suon di cioccolata calda da ignoti in campo San Polo, la notte di giovedì grasso. Probabilmente non contento della pessima figura rimediata, solo lontanamente possiamo immaginare il suo imbarazzo una volta varcata la porta di casa, il cciovane candidato del Partito Democratico ha pensato bene di accusare prima i Centri Sociali cittadini e poi, in seguito alla smentita del loro portavoce, una non meglio precisata “coppia di giovani anarchici”.
Non sappiamo chi sia stato ad apostrofare il sig.Piangina in campo San Polo. Chi scrive non era presente e, purtroppo, ha perso l’occasione per farsi una grassa risata in uno dei carnevali più smunti e tristi degli ultimi anni. Certo è che a furia di invocare più polizia nelle strade, sgomberi (anche notturni) delle case occupate, tavoli di incontro tra sbirri e cittadini e tagli delle utenze abusive che qualcosa, quando cammini per strada, ti possa capitare uno dovrebbe pure metterlo in conto. Non a caso, come si desume dalla pagina facebook del nostro eroe della sicurezza e della legalità, oltre ai colleghi di partito a esprimergli solidarietà sono noti fascisti locali, gli stessi che si offrono di risolvere il problema del degrado e della sicurezza organizzando ronde in Campo Santa Margherita.
Un maldestro tentativo di farsi campagna elettorale sulla pelle altrui quindi, mal riuscito e assolutamente irrispettoso del fine ultimo degli ignoti guasconi di San Polo: far profumare di cioccolato, in una sera di Carnevale, uno che, tutti i giorni, puzza di merda fino al midollo.

Di seguito trovate l’articolo che riporta la notizia, corredato da struggenti foto della vittima:

http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cronaca/2015/02/13/news/clima-politico-infuocato-jacopo-molina-aggredito-e-insultato-da-alcuni-giovani-1.10856496

 molina


Carnevalate/1

5 Febbraio. Campo San Zan Degolà, uno degli ultimi angoli di città rimasti tagliati fuori dai grandi flussi turistici. Tre del pomeriggio, un discreto quantitativo di sbirri con manganelli alla mano: uno punta la pistola contro la finestra di un palazzo abbandonato. Effetti dell’isterica militarizzazione che la città, per difendersi dalla “minaccia del terrorismo”, sta subendo dall’inizio di uno dei carnevali più sottotono degli ultimi anni.
Qualcuno di passaggio si mette in mezzo chiedendo spiegazioni ma, prontamente bloccato dai carabinieri, viene portato in disparte, minacciato di denuncia e invitato a farsi gli affari propri.
Si tratta dello sgombero di tre ragazzi francesi, artisti di strada, che, per vivere un carnevale diverso dalla monotonia turistico-commerciale che viene ogni anno propinata, a discapito delle iniziative spontanee e autorganizzate, avevano deciso di occupare una casa. Una casa vuota, in ristrutturazione e pare, secondo le voci di chi abita in zona, in attesa del cambio di destinazione d’uso per diventare l’ennesimo albergo in questa città di spettri. Per gli audaci artisti qualche ora in questura e, considerata la pericolosità sociale del gesto, foglio di via per tre anni da Venezia.

Senza volerlo i protagonisti di questa vicenda ci hanno regalato almeno due indicazioni sul da farsi.
La prima, già colta da qualcuno ma fin’ora rimasta appannaggio di pochi, è quella di abitare edifici lasciati vuoti in attesa di future speculazioni alberghiere. Occupare a Venezia non è solo stabilirsi tra quattro mura, ma è già sottrarre zone alla mercificazione turistica.
La seconda, inedita e stuzzicante, che ciò venga fatto da chi è in città di passaggio. Del resto in un luogo dove il numero di turisti supera abbondantemente quello dei residenti effettivi, in cui ogni investitore straniero si sente in diritto di proporre la qualunque “nel nome di Venezia”, è lecito pensare che qualcuno decida di invertire il paradigma del visitatore, iniziando a vivere spazi che non prevedono la propria presenza,da cui è possibie avere un altro punto di vista.

Qui sotto trovate l’articolo di cronaca:

http://www.veneziatoday.it/cronaca/artisti-strada-occupano-appartamento-venezia-carnevale.html


6 Febbraio.Dalla lotta agli sfratti alla sorveglianza speciale. Un incontro con i compagni di Torino

Tra i primi mesi del 2012 fino al 2013 il quartiere di Barriera di Milano, “periferia” nord di Torino, è stato attraversato da una lotta contro gli sfratti tanto forte quanto condotta in maniera inedita.
Tra le strade bloccate dai cassonetti usati come barricate, tra i picchetti formati da un magma di compagni, sfrattati e solidali si è fatta largo un’ipotesi rivoluzionaria: partire dalla difesa di un bisogno per attaccare ciò che ci separa dai nostri desideri.
Nata da un incontro fortuito, e fortunato, tra due persone la lotta agli sfratti di Torino è stata in grado di segnare un passo diverso in un pezzo di città sospeso tra illegalità diffusa e gentrificazione, creando, tra chi ne ha fatto parte, legami di solidarietà e relazioni a volte brevi, a volte duraturi. Legami che, acquisendo insieme competenze e crescendo nella lotta, hanno avuto la loro parte nelle altre lotte sviluppatesi successivamente: difficile non vedere delle somiglianze, ed un immaginario comune, nei blocchi in Val di Susa di quel periodo o nei quartieri di Milano dove, a novembre scorso, si è resistito agli sgomberi ordinati da Aler e giunta Pisapia.
Il passato 3 giugno la Procura decide di colpire duramente tutto ciò che la lotta contro gli sfratti in Barriera ha prodotto: 111 indagati complessivi, 29 misure cautelari di cui 11 in carcere. In seguito alla scarcerazione degli arrestati, avvenuta a fine novembre, il PM Rinaudo ha richiesto per 5 compagni/e la sorveglianza speciale. Una misura, affibiata in modo sostanzialmente arbitrario, che condiziona pesantemente la vita di chi la subisce, impedendogli di frequentare pregiudicati, di tornare a casa dopo una certa ora, di frequentare locali pubblici.
Una provvedimento questo che è stato recentemente richiesto per un compagno a Saronno (richiesta poi respinta) e per 3 compagni/e a Bologna, facendo intravedere una nuova strategia repressiva: falliti i tentativi di reati associativi, fallito il paradigma del “terrorismo”, provare a fermare i sovversivi incuneandosi tra la loro attività e le loro relazioni, limitandole e perseguendole allo stesso tempo.
Per raccontare cosa è stata la lotta agli sfratti da chi l’ha vissuta in prima persona, per riflettere e organizzarsi contro le nuove misure di sorveglianza speciale di vediamo
VENERDì 6 FEBBRAIO DALLE ORE 10.00 A SANTA MARTA

DALLE ORE 18.30 ALL’EX OSPIZIO OCCUPATO, FONDAMENTA DELLE TERESE 9/A.

locandina torinesi WEB


Spazi pubblici contemporanei

Pubblichiamo qui un testo scritto a partire da alcune riflessioni sugli spazi pubblici contemporanei, letto e commentato durante il dibattito seguito alla proiezione di “Vite al centro” .

Il testo è scaricabile anche in .odt dal link qui sotto.

spazi pubblici contemporanei


 

SPAZI PUBBLICI DI LARGO CONSUMO NELLA CITTA’ CONTEMPORANEA

Gli spazi pubblici sono per la loro stessa natura spazi politici e culturali fondamentali rispetto ai processi di formazione delle identità sociali collettive: questo perchè stare fisicamente assieme ad altre persone in un ambiente significa inevitabilmente avviare dei processi di confronto collettivo, il cui esito è l’identificazione dei “simili”, ovvero delle persone con cui condividiamo delle attitudini, e quindi la costituzione di collettività, per le quali tali spazi si trasformano in “luoghi”, nel senso sociale-antropologico del termine: ad essi viene attribuito un carattere, una personalità che li rende unici e territorializzati, ovvero portatori di un senso collegato all’ambiente in cui si trovano e alle persone che lo abitano.
Nella società contemporanea si stabiliscono legami collettivi temporanei attorno agli individui, agli oggetti e alle immagini che appartengono alla cultura del consumo e dello spettacolo, piuttosto che ai grandi temi della religione, della politica e del lavoro. Le relazioni sociali non discorsive, figurali, digitali, estetizzate, hanno ormai completamente sostituito la parola e il razionalismo. Vige la comunicazione primaria, basata sui desideri, le emozioni, gli istinti primari. Ciò che ne deriva è una forte frammentazione culturale formata da piccoli gruppi con identità dinamiche, fragili: consumatori che vogliono e ottengono spazi usa e getta.
Lo spazio della socializzazione per eccellenza in queste conurbazioni estese contemporanee è quello dei centri commerciali, dei parchi divertimenti, dei waterfront commerciali, degli shopping mall. Una motivazione economico-funzionalista (comodità di parcheggio, ampia scelta di merci, costi più bassi) non è sufficiente a spiegare il successo di questi centri prevalentemente extra-urbani.
Per capire la fortuna di questi spazi è importante metterli in relazione col sistema urbanistico in cui si inseriscono. L’attuale assetto del sistema urbano del triveneto è caratterizzato da un iperestensione territoriale delle agglomerazioni (insediative, economiche e sociali), associata ad un fenomeno di ipermobilità che fa leva sull’uso dei veicoli privati e su una rete infrastrutturale estremamente articolata e differenziata; la città è policentrica, caratterizzata da uno stravolgimento della tradizionale gerarchia centro-periferia. Punto forte è quindi il rapporto diretto con la rete infrastrutturale automobilistica, che diventa sempre più l’elemento di attrazione e formazione di fenomeni agglomerativi in generale. A volte la costruzione di un centro commerciale è l’elemento propulsore della formazione di cittadelle periferiche terziarie, caratterizzate dall’affiancamento di spazi ospitanti vari servizi e funzioni (commercio specializzato, attività culturali (multisala) divertimento (discoteche) alberghi ecc. Ciò avviene attraverso una semplice giustapposizione di edifici e funzioni, senza relazione col contesto urbano: l’esterno è parcheggio. La tendenza è quella di assumere sempre più una dimensione globale, policentrica e scissa dal contesto fisico e sociale a cui questi spazi appartengono.
Innanzitutto vale la pena spendere due parole sulle caratteristiche fisiche di questi spazi: architetture introverse, ma con ingressi grandi e ben visibili (differentemente dalle uscite). Le grandi dimensioni dell’involucro li rendono riconoscibili anche da lontano nonché fortemente dominanti sul paesaggio; l’assenza di relazione tra interno ed esterno (la mancanza di aperture viene sopperita dalla presenza di potenti sistemi di circolazione dell’aria) toglie la percezione dello scorrere del tempo (e delle stagioni): quantità e qualità della luce nonché temperatura sono costanti al suo interno durante tutta la giornata come durante tutto l’anno. La presenza di elementi naturali come piante e acqua serve proprio come simulacro dell’ambiente naturale esterno e permette anzi di indirizzare la percezione delle stagioni in base alle strategie di mercato. Quello del centro commerciale è un ambiente altamente estetizzato e coinvolgente dal punto di vista visivo: illuminazioni spettacolari, vetrine accattivanti che propongono la decontestualizzazione delle merci riproposte in chiave scenografica e interni lussuosi. Il consumatore è però coinvolto anche dal punto di vista uditivo e olfattivo: frequenti la profumazione dell’aria attraverso gli impianti e la presenza costante di musica o jingle pubblicitari come sottofondo. In quest’ottica di estetizzazione anche tutto ciò che attiene alla produzione o al lavoro (magazzini, cucine, uffici ecc.) è nascosto, celato come un vero e proprio backstage con tanto di entrata differenziata e accesso riservato agli addetti ai lavori. Altra strategia di vendita applicata alla progettazione è la collocazione differenziata dei negozi: ai piani alti e in ombra i negozi ricercati e al piano terra e in luce i negozi più economici, tutto al fine di naturalizzare le differenze di potere d’acquisto; anche la decontestualizzazione delle merci in esposizione è una strategia che serve ad allontanare nel fruitore l’idea della vendita e dell’interesse economico, provocando paradossalmente al contempo una maggior propensione allo shopping.
Tuttavia la caratteristica e tecnica commerciale più significativa di questi spazi è l’utilizzo di riferimenti simbolici che rimandano all’immaginario collettivo. In particolare la simulazione di elementi pre-industriali ripropone gli ambienti tipici della città tradizionale estetizzati (e anestetizzati), rifacendosi a quell’immaginario nostalgico che idealizza l’età preindustriale collegata ad una sensazione di protezione e armonia, in cui si prediligono la passeggiata protetta, la dimensione controllabile a misura d’uomo, la naturalità.
Non dimentichiamo infine che stiamo parlando di spazi privati, nonostante vogliano riproporre ambienti pubblici. Persino lo spazio automobilistico, prerogativa necessaria al raggiungimento del centro commerciale, è un’estensione dello spazio privato dell’abitazione. Questi centri sono promossi da grandi gruppi economico-finanziari che operano a scala globale e che mirano alla formazione di un reticolo globale di scambio. Il processo di privatizzazione arriva a influenzare spazi e tempi di questi luoghi, in cui sono presenti dispositivi di controllo (telecamere e vigilantes) e regolamenti di comportamento interno specifici.
Per tutti questi motivi questi luoghi diventano quindi simulacri della realtà, ricreando nel fruitore uno stato d’animo favorevole ai processi di consumo. Parallela a questa strategia ma molto simile per certi aspetti è il rimando al futuro e alla modernità tramite l’utilizzo e l’esibizione delle più recenti tecnologie (maxi schermi, spettacoli luminosi).
La socialità tipica di questi spazi si rifà a contatti effimeri, mutevoli, provvisori ed empatici, basati su un presente continuo e idealizzato, sulla comunicazione tattile e sull’identificazione con i simboli della cultura consumistica. Le motivazioni che ci spingono a frequentare gli spazi del consumo di massa spesso non sono dettate da una reale necessità , bensì da un generico desiderio di distrazione, di straordinarietà. Questi contenitori di relazioni, in cui affluiscono gruppi già costituiti di persone (famiglie, piccoli gruppi di amici, coppie) che non interagiscono tra loro, costituiscono gli ambienti adatti alle forme di socialità effimere e provvisorie tipiche della cultura del consumo. Si tratta pur sempre di luoghi in cui si provano ed esprimono emozioni, ma le identificazioni collettive sono temporanee e prive di basi solide. Lo spazio pubblico diventa così esso stesso una merce, da consumare velocemente.
Allo stesso tempo si tratta di spazi escludenti, sia perchè non sono raggiungibili da chi sia sprovvisto di un’automobile, sia per gli individui singoli, in quanto risultano improvvisamente angoscianti se vissuti singolarmente, mostrandosi in tutta la loro pochezza. Risultato: frammentazione politico-culturale, esclusione sociale e crisi delle identità locali.
Si tratta di enclaves protette e sorvegliate che raccolgono segmenti sociali omogenei (i consumatori) ma non interagenti tra loro. D’altronde la volontà generatrice non è quella di creare interazione e ibridazione sociale, ma di procurare dei simulacri di socialità caratterizzati da momentanee interruzioni nella solitudine dei consumatore; ciò che manca non è tanto quindi la convivialità, quanto l’assenza di complessità, diversità sociale, interazione.

Questo non significa che i centri urbani tradizionali non vengono più frequentati: essi si sono adeguati ad un uso turistico che fa leva sul concetto di centro storico come simbolo di identità urbana, museificata ed estetizzata per diventare simulacro di sé stessa. Come nell’800 i boulevards erano il teatro della nuova borghesia che si riconosceva nell’attenersi a precise regole di comportamento (tipologia di vestiti, ora della passeggiata, capacità d’acquisto). Non molto differentemente oggi, gli spazi pubblici di largo consumo ricreano e propongono la situazione della passeggiata in centro davanti alle vetrine, che nonostante la sua pochezza viene vissuta come un’esperienza comunicativa (basata sull’osservare ed essere osservati, e quindi sul continuo contatto visivo con la folla che scorre), creando unità temporanee tra i presenti, proponendo spazi del profitto e dei rapporti di vendita come spazi della socialità in cui utilizzare il proprio tempo libero.
Un percorso che può essere quello interno di un centro commerciale come quello esterno delle strade illuminate a giorno di un centro storico: anche qui infatti la strategia adottata è quella della spettacolarizzazione dello spazio, museificato e riconvertito ad uso commerciale per i flussi turistici, a discapito naturalmente di un restringimento di spazi pubblici tradizionali e servizi per quei residenti che ancora permangono. Attitudini o tradizioni locali vengono enfatizzate, snaturate o addirittura reinventate, tutto al fine di convertirle in termini commerciali: lo spazio pubblico funziona allora come fattore di innalzamento del valore simbolico (e quindi economico) del bene o del servizio venduto.


La Bronsa

Scaricabile qui sotto trovate “La Bronsa”, un testo scritto nell’aprile 2013 da alcuni compagni/e che hanno partecipato alla lotta contro l’approvazione del nuovo Piano d’Assetto del Territorio del Comune di Venezia. Data la scarsità di dibattito seguito a quelle mobilitazioni, ma consci dell’estrema attualità degli argomenti che erano riuscite a far emergere ( solo in parte riportati in questo testo), lo rimettiamo in circolazione, fiduciosi in una sua utilità.

La bronsa